Se il federalismo mette sotto scacco il centrosinistra

Paolo Armaroli

Romano Prodi ha fama di essere stato sempre assistito dal fattore «C», «C» come... fondoschiena. E ci deve essere del vero, se ai tempi del liceo i suoi compagni gli toccavano la testa prima di una interrogazione con la speranza di farla franca. In compenso il centrosinistra è perseguitato dal fattore «I», «I» come iella. Ogni giorno ha la sua pena sia in politica interna sia in politica internazionale. I suoi uomini credono di essere furbi come volpi. Ma sovente restano vittime dei loro artifici. Predispongono trappole micidiali e finiscono per cascarci dentro da quegli allocchi che sono.
Gli esempi? Infiniti. Ma basterà qui considerare quel cantiere aperto che va sotto il nome di federalismo. Nel 2001, agli sgoccioli della XIII legislatura, il centrosinistra gioca la carta della disperazione. Tutti i sondaggi danno il centrodestra vincente. Ma l’allora maggioranza non si dà per vinta e gioca il tutto per tutto. Pur di agganciare la Lega, si aggrappa come un naufrago alla ciambella del federalismo. Così, in quattro e quattr’otto, rivolta come un calzino il Titolo V della Costituzione. In solitudine. Poi si giustificherà osservando che diversi governatori della Casa delle libertà erano sostanzialmente d’accordo e che, dopo tutto, la riforma ricalcava quella partorita dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D’Alema.
È la verità, sia chiaro. Ma non è tutta la verità. È piuttosto una ricostruzione ad usum delphini. Allora ero deputato e ricordo perfettamente come andarono le cose. Si era convenuto che la modifica della forma di Stato e quella della forma di governo procedessero di pari passo. Perché le spinte centrifughe proprie del federalismo andavano riequilibrate da spinte centripete determinate da un considerevole rafforzamento del governo. Insomma, il nostro parlamentarismo più o meno allo sbando andava corretto o da un semipresidenzialismo alla francese o da un premierato all’inglese. Invece gli alti papaveri del centrosinistra scimmiottarono, pensate un po’, niente meno che Bismarck. Come il cancelliere germanico, considerarono il solenne patto stipulato con la Casa delle libertà niente più che un pezzo di carta degno all’occorrenza del cestino dei rifiuti. E, infischiandosi delle legittime proteste del centrodestra, andarono avanti come se niente fosse.
Ma la gatta, per fare in fretta, fece i gattini ciechi. Quella riforma del Titolo V è stata rinnegata perfino dai suoi artefici, ha moltiplicato il contenzioso tra Stato e Regioni e conferito a queste ultime tutta una serie di materie di interesse nazionale. Tra le tante «perle» c’è anche l’ultimo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che la riforma della Casa delle libertà bocciata dal referendum voleva cancellare in quanto avrebbe potuto dare vita non già a un federalismo solidale ma a un federalismo asimmetrico. A più velocità, insomma. Questa disposizione stabilisce che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite anche alle Regioni a statuto ordinario, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi del federalismo fiscale. E aggiunge che la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata. Lombardia e Veneto, Regioni di centrodestra, intendono salire su questo tram per raggiungere il traguardo. E il centrosinistra non sa più che pesci pigliare. Se dice picche, sconfessa se stesso. Se dà disco verde, si arrende alla Casa delle libertà. In ogni caso, perderà la faccia.

Perseguitata come sempre dal fattore «I», come iella.

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