Se l’ambiguità dei cristiani aiuta Hezbollah

Massimo Introvigne

Per anni lo slogan «meglio rossi che morti» ha cercato di convincerci che, se il rischio era morire ammazzati, meglio piegarsi ai regimi comunisti. Anche nelle Chiese cristiane dei paesi comunisti, accanto a tanti martiri, c’era chi cantava le lodi dei regimi al potere. La legge islamica, la sharia, prevede per i cristiani e gli ebrei lo stato di dhimmi, «protetti». Non possono svolgere attività missionaria, né accedere alle cariche pubbliche più importanti, e devono pagare tasse più alte: insomma, sono cittadini di serie B, ma almeno salvano la pelle.
È sempre difficile criticare chi la pelle la rischia ogni giorno, e oggi è tentato da un «meglio dhimmi che morti». Tuttavia, quando questo disagio è sfruttato all’estero, non è giusto neppure tacere. In Palestina e in Libano non sono solo politici e militari cristiani - che danno l’impressione di cercare vendetta per non essere stati a suo tempo sostenuti dall’Occidente, come il generale Aoun - a mettersi al servizio degli Hezbollah, accettando di fatto la posizione di dhimmi ideologici oggi nella prospettiva di diventare dhimmi a pieno titolo domani.
Anche alcune autorità religiose cristiane parlano apparentemente di teologia ma lo fanno in un modo così ambiguo da favorire oggettivamente la propaganda degli Hezbollah e di Hamas. La settimana scorsa quattro vescovi della Palestina - quello latino-cattolico, Michel Sabbah, quello siro-ortodosso, un luterano e un anglicano - hanno pubblicato un documento contro il «sionismo cristiano», una teologia diffusa nella corrente cosiddetta evangelicale, cioè conservatrice, maggioritaria nel protestantesimo degli Stati Uniti, che si inquadra in una complessa visione della imminente fine del mondo all’interno della quale lo Stato di Israele ha un ruolo preparatorio voluto da Dio. Se si vuole dire che questa forma di millenarismo non è condivisa da cattolici e ortodossi (e neppure da anglicani e luterani), si afferma l’ovvio. Ma il momento scelto è sospetto, e si coglie l’occasione per scrivere che «i governi di Israele e Stati Uniti, attualmente stanno imponendo la loro dominazione sulla Palestina» e sono colpevoli di «colonizzazione, apartheid e imperialismo», frasi che non stonerebbero in un documento di Hamas o degli Hezbollah. Anche il gesuita nato in Egitto, ma che è vissuto a lungo in Libano, padre Samir Khalil Samir, stimato dal Papa - e anche da chi scrive - per la sua conoscenza enciclopedica dell’islam, ha proposto un programma di pace in dieci punti (alcuni dei quali ragionevoli) in cui però sostiene che l’unica e sola radice del problema medio-orientale non è il terrorismo ma la stessa creazione dopo l’Olocausto dello Stato di Israele nel 1948, «una ingiustizia contro la popolazione palestinese». Tra le sue proposte c'è il famoso «diritto al ritorno», almeno parziale, dei palestinesi che hanno lasciato Israele negli anni 1940 e 1950, condizione che distruggerebbe lo Stato ebraico trasformandolo in uno Stato islamico (con i cristiani, anche qui, nella condizione di dhimmi) e che nessun governante israeliano potrà mai accettare neppure di discutere.
Tutto questo non è tanto una critica dei dirigenti cristiani medio-orientali, che rischiano ogni giorno di essere accoltellati o peggio.

È più colpevole chi sfrutta cinicamente le loro dichiarazioni in Occidente, per giustificare politiche «equivicine» a Israele e ai terroristi o per ripetere cantilene antisemite dove, di qualunque cosa succeda in Medio Oriente, i colpevoli sono sempre e solo gli ebrei.

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