Se gli studenti teppisti diventano star

Prima hanno sfasciato vetrine, macchine, motorini, hanno sporcato le strade, ne han fatte di tutti i colori. Poi li hanno presi, li hanno portati a Palazzo di Giustizia e quando sono usciti sembrava di essere sul set del film Rocky: applausi da stadio, fischi, televisioni, giornali, radio e chi più ne ha più ne metta. Stiamo parlando di qualche studente che l’altro giorno camminava a Milano pensando di compiere i primi passi per la marcia verso la rivoluzione di memoria maoista. Invece erano dotati di altri, diciamo, attributi: poche idee, confuse, obiettivi nebulosi e tanta voglia di far confusione.
Ora, intendiamoci, la voglia di fare la rivoluzione è un po’ come l’acne. Sorge in epoca adolescenziale, va lasciata sfogare perché, talora, la sua repressione provoca un’intensificazione della medesima. C’è una differenza: che l’acne non è violenta, non fa male a nessuno Se non a quei faccini adolescenziali che vengono, a volte, trasformati in una specie di suolo lunare. Nel caso dell’acne rivoluzionaria, invece, la questione è un po’ più complicata perché se uno, già da ragazzo o da giovane, pensa che avendo in testa l’idea migliore di società sia autorizzato a fare quello che vuole, allora da grande magari diventa un seguace di Di Pietro. E questo non va bene perché questi ragazzotti che hanno sfasciato le macchine e le vetrine non sono eroi, come sembrava all’uscita del Palazzo di Giustizia, sono delle persone che hanno travalicato il limite che i cittadini non possono travalicare, che è quello del rispetto dei diritti altrui.
Allora non possono avere aneliti rivoluzionari? Non possono forse aspirare ad un mondo migliore? Non possono credere, come diceva nello scorso secolo Fausto Bertinotti, seguito a ruota da Agnoletto, che «un mondo diverso è possibile»? Per carità, aspirino pure e anche forte ma poi, in un secondo momento, espirino, si rilassino e tentino di autoinculcarsi la seguente verità: rivoluzionino tutto ciò che vogliono senza deturpare ciò che appartiene ad altri, fosse anche un ombrello.
Non aiuta quella che dovrebbe essere una delle principali «comunità educanti». La scuola medesima. Se le maestre sono arrivate a portare in strada i bambini delle elementari con palloncini con scritte sopra che non si vedevano dai tempi di Lotta continua, figurarsi l’indottrinamento cui sono sottoposti questi giovani a scuola. Perché questi giovani hanno l’acne rivoluzionaria ma c’è anche un altro morbo che, invece, affligge molti professori intorno ai cinquant’anni e che potremmo definire l’istinto rivoluzionario della incipiente senescenza. Mentre nel caso degli studenti occorrerebbe far loro capire cosa significa manifestare le proprie idee nel rispetto degli altri, nel caso di questi professori e professoresse bisognerebbe spiegare la distinzione tra indottrinamento e formazione. Una distinzione semplice ma che se non rispettata può provocare le vere e proprie degenerazioni educative. E questa è una realtà veramente brutta, odiosa, perché è compiuta da persone che dovrebbero fare tutto il contrario. Che sono pagate dagli italiani per creare uno spirito critico e fornire agli studenti quella cultura necessaria per poterlo esercitare. Difficile capire che gusto possa trovare un insegnante nel tentare di inculcare quel che pensa lui. Perché lo fa? Perché è un frustrato? Perché è un invasato? Non sappiamo perché però poi ne vediamo gli effetti.

Allora è giusto chiedersi: è possibile che il ruolo educativo sia lasciato alle forze dell’ordine e alla magistratura che, tra le tante cose di cui debbono occuparsi, debbano perdere tempo dietro a qualche esagitato? Non sarebbe meglio che questo compito fosse svolto dalla famiglia (prima) e dalla scuola (poi)?
La responsabilità dei gesti di questi ragazzi è individuale. Questo è assoluto. Non c’è dubbio che il clima che hanno intorno spesso non aiuta.

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