Se in «Warrior» si combatte, bene Se si parla, meno

C'è da ringraziare Quentin Tarantino e il suo amore verso i generi minori, i cosiddetti B movies, se tanto cinema di culto, spesso realizzato con pochi mezzi e tanta fantasia, ha compiuto il definitivo salto verso il mainstream, fino a diventare materiale per le nuove produzioni, in sala e in tv, così patinate da perdere per strada quel gusto ruvido e grezzo che ha esaltato generazioni di cinefili.

Basti soffermarsi sui titoli di testa di Warrior per comprovare l'estetica tarantiniana divenuta maniera. Sarebbero sufficienti quei pochi minuti a prendere in simpatia la nuova serie in dieci episodi su Sky Atlantic concepita come un pastiche tra arti marziali, avventura, ambientazioni ottocentesche, un po' di sesso e tanta, troppa verbosità. Problema non da poco, perché in pochi hanno la scrittura del Maestro, e allora sentir parlare criminali incalliti con il linguaggio della piccola borghesia stona decisamente. Molto meglio optare per la versione originale, che mixa l'inglese al cantonese, l'italiano è pressoché inascoltabile.

Warrior, però, si porta dietro un altro grande nome, quello di Bruce Lee, l'eroe assoluto del cinema di Kung Fu, morto giovane nel 1973 e in circostanze misteriose, che avrebbe lasciato ai posteri questa storia scritta due anni prima. L'attore protagonista, il giovane Andrew Koji, modella la propria recitazione sullo stile di Lee, alternando la parlata fina (Bruce peraltro era considerato un filosofo) alla spietatezza nel combattimento. E sono proprio gli scontri violenti - dove il nostro vince sempre, uno contro tutti- a far riemergere quell'idea di cinema infantile e semplice con sempre gli stessi ingredienti distribuiti nel corso della finzione che finisce per diventare un pretesto: tante sparatorie e duelli nel western, tanti inseguimenti nel poliziesco, tanti scontri per l'avventura, tanto sesso esplicito nel porno.

Ci fosse solo questo basterebbe per divertirsi senza troppe ambizioni, invece Warrior - ed è il suo difetto - mira più alto, inserendo scorci di un'ipotetica San Francisco a fine XIX secolo, che fa il verso a Scorsese. Senza risparmiarci l'eterno dramma delle migrazioni, lo sfruttamento dei più poveri, la ricerca di una sorella scomparsa e ovviamente il tema della vendetta. Così la storia fatica a decollare, l'estetismo di luci e scenografie prende il sopravvento, i personaggi sono tanti e non si riescono a seguire.

Quando però tornano kung fu, sgozzamenti, amputazioni e (meno male) un po' di sesso, Warrior torna a divertirci proprio come quando, negli anni '70, incuranti di chi ci imponeva il cinema d'autore e di poesia, preferivamo quei generi bistrattati che poi la critica ha riscoperto, esaltandoli in maniera persino eccessiva.

Creata da Jonathan Tropper e Justin Lee, la prima stagione di Warrior probabilmente avrà un seguito e per ora prende la sufficienza più che altro per affetto nei confronti di un cinema quasi estinto.

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