«Senza identità, Milano è pronta per i grattacieli»

Intransigenza e nostalgia. Concretezza e verità. Una verità alla portata di tutti: lontana - per dirla con Beckett - dalla «farsa del dare e dell'avere». Una verità utile: perciò foriera, senza volerlo, di polemiche.
Una poesia lieve ma rigorosa, a dimensione uomo: perciò non troppo considerata dai media. Sono i caratteri distintivi del pensiero e dell'architettura di Giorgio Grassi.
Nato a Milano nel 1935, ha insegnato nelle università di Valencia, Losanna, Zurigo e, dal 1977, al Politecnico. Suo è il restauro del discusso teatro romano di Sagunto, suoi diversi edifici a Berlino, Valencia, Groningen, Santiago de Compostela. La sua carriera - influenzata da Adolf Loos, Peter Oud e Heinrich Tessenow - è ora ripercorsa da lui stesso con scontroso pudore in Una vita da architetto (Franco Angeli, pagg. 192, euro 25): libro che fin dal titolo, ripreso da Una vita da mediano di Ligabue, prende posizione contro il narcisismo, che domina oggi la professione. L'abbiamo intervistato.
Cosa pensa dell'architettura contemporanea?
«Questo libro rappresenta un bilancio del mio rapporto col mio mestiere ma è anche un giudizio senza appello, vista l'età. A me sembra che le cose vadano sempre peggio. Possibile che il pubblico - il pubblico, non i pifferai che hanno il loro tornaconto - non si accorga di vedere quotidianamente offesa la sua intelligenza? Del resto, questo non succede solo in architettura, basta pensare alla politica».
Ci spieghi meglio.
«Oggi l'architettura è riuscita a farsi accreditare come “arte”, come “arte pura”. Il che per i suoi epigoni vuol dire: senza limiti, né regole, né storia. Oggi gli architetti sono diventati intercambiabili con i sarti, in tutti i sensi, entrambi abilitati “artisti”. Un architetto può oggi affermare che quel suo edificio ha la forma che ha perché ispirato a un pezzo di formaggio, a una nuvola o a chissà che. Mentre altri, stessa faccia tosta ma meno fantasia, approfittano di parole d'ordine come “ecologismo” per progettare “boschi verticali” e mulini a vento sul tetto di grattacieli che in realtà si spiegano solo come strumenti della speculazione edilizia. Gli architetti sono da sempre personaggi disinvolti, ma adesso penso stiano esagerando: in Spagna in questi casi si usa il termine sin-verguenza».
Sarà per queste critiche che si è attirato la fama di «non affidabile»?
«Essere stato giudicato così già nei primi anni '80 da un politico/architetto che contava a Milano ha fatto sì che ciò che ho realizzato si trovi in Spagna, Olanda, Germania, ma non nel mio Paese, per non parlare della mia città. Tuttavia sono certo - per quel poco che, senza riuscirci, ho cercato di fare qui - che questo mi ha risparmiato delusioni e umiliazioni che, per quanto mi conosco, non avrei sopportato».
Veniamo dunque a Milano...
«Milano è un pezzo d'Italia come tutto il resto. Fa impressione ma anche rabbia pensare alle parole appassionate spese inutilmente dal “milanese” Stendhal per questa città che allora era un modello insuperato in Europa. È una città che ha perso la sua identità, ha quindi le carte in regola per ospitare le opere di architettura più stravaganti e a lei estranee. Quando se ne pentirà sarà tardi».


In quale città vorrebbe vivere?
«Nel '94 volevo andare a Barcellona, adesso per la stessa ragione medito di trasferirmi a Madrid, ma so che non andrò mai da nessuna parte, perché non c'è un luogo in cui tu possa liberarti dalla responsabilità che, tuo malgrado, hai di tutto quello che di volgare e di crudele succede nel mondo e lo trasforma».

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