Al giovinetto Francesco Bussone, le pecore sembravano cavalli bardati per il torneo. E le nuvole, carri da combattimento. Stando in mezzo alle montagne il mare non lo aveva mai veduto. Ecco perché la nuvolaia delle macchine da guerra in cielo, si era trasformata nell'armatura esile e cartilaginosa di un grosso pesce: lo stesso che aveva osservato inciso su una roccia.
Francesco era un piccolo piemontese che, nel corpo, possedeva un'aria azzurrina: una miscela di struggimento e gaiezza che gli si disegnava sul volto fiero, come se egli fosse il vero Principe tra tanti stupidi principi dell'Italia di allora. Era alto, magro, pallido. Con un collo che, a tredici anni, pareva quello di una giraffa. Le gambe lunghissime, con il baricentro sopra le ànche che lo facevano un longilineo da delirio: un cavaliere meglio piazzato su Pegaso che in groppa a un purosangue. Comunque il giovane pecoraio, futuro Conte, era un ragazzetto ancora più scheletrico da quando gli erano morti entrambi i genitori. Quel giorno aveva scavato nel foppone, piangendo da neonato. Poi aveva buttato due manciate di calce viva contro i cari cadaveri, smettendo di piangere. L'indomani la sua vita accelerò come se a quei tempi, siamo nel 1402, si potessero prendere i Fokker dal Piemonte alla Lombardia; da Venezia a Brescia; da Cremona a Genova. Ormai per lui il destino volava alto. Il soldato Facio Cane glielo riconobbe in faccia come già fece il Battista per Cristo, lanciandolo nell'avventura della guerra. E, ben presto, divenne «tra i primi guerrier d'Italia il primo».
Quando sposò Antonietta Visconti, parente di Filippo Duca di Milano, suo amico e Signore, sverginandola nel palazzo del Broletto, Francesco era dunque il Conte di Carmagnola: bello quanto un giavellotto scagliato contro il nemico. Già conquistatore di Piacenza, Brescia, Bergamo e di altre diciassette-diciotto città che provvide a consegnare nelle mani di Filippo. Correva l'anno 1424. Il più grande e Nobile Capitano di Ventura apparso nella storia, aveva trentaquattro anni. Poi Filippo gli si fede nemico. Tentò addirittura di ucciderlo. Allora il Carmagnola giunse a Venezia. E qui, finalmente, nacque la sua Tragedia: la grandezza del Manzoni.
Dinanzi al Doge e ai Senatori il Carmagnola spiegò le ragioni dell'offesa, della viltà subita per opera del suo ex Signore. Parlò con mano aperta, con il ginocchio piegato, gli occhi acquosi. Fuori dal salone del Palazzo, i topi si nascondevano nelle fogne, attenti a origliare. Intorno Venezia era una città di cartapesta. I suoi vicoli e campi: padiglioni auricolari. I topi, dunque, sintonizzati a seguire le parole, i movimenti eleganti, la dolcezza del cuore del nuovo Condottiero. Il cielo era chiuso. Mentre il Carmagnola, alla Serenissima, parlava come fosse squarciato dalla luce. Come se esso, appunto, fosse proprio il luogo eletto per il patto d'amicizia che si andava saldando: « e il maggior premio che bramo, il solo è la vostra stima, e quella d'ogni cortese».
Il Conte parlava ai nobili come se il sangue versato in battaglia fosse un medicamento e non la morte. «Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo, per nobil causa, e con onor, non preso nella rete de' vili».
Usava le parole come l'ombra segue il corpo, come quando il Maestro di sé insegna a se stesso. Eppure i veneziani, che erano topi carnivori, annusarono il gas. Ebbero paura d'essere sterminati. Allora pensarono bene di infilarsi la museruola, di proclamare la guerra a Milano, intuendo anzitempo che il Conte, il Mercenario del Cielo, l'Unico al quale il destino promette un bacio sulle labbra, non sarebbe mai stato servo. Confabularono fra loro con la maschera antigas sulla mandibola. «E quando abbia la man nell'elsa della nostra spada, potremo noi dir d'aver creato un servo?». Il Doge: «Ho io proposto che guardia al Conte non si faccia, e a lui si dia l'arbitrio dello Stato in mano».
Lontano dagli squittii, quando s'ebbe sganciata la maglia di ferro e staccato dal capo l'elmo con la penna di pavone, il Conte si incontrò con Marco: «O dolce amico; ebben qual nova arrechi?».
«La guerra è resoluta, e tu sei Duce».
Si abbracciarono. Il loro era un amore di fanciulli. Dunque il Conte sarebbe ritornato con la spada che i fedeli armigeri acclamavano come si chiamasse: Vittoria! Vittoria! E i due amici si parlarono segreti, rinchiusi in un confessionale, al cospetto di un cielo verde macero, con Marco attanagliato dalla paura dei sospetti dei Senatori; sereno, invece, certo di sprofondare nel proprio destino, il Carmagnola. Marco gli disse: «Sei troppo grande per loro. Lo sprezzo aperto che tu gli mostri ad ogni incontro li indispone. La grandezza della tua vita li sommerge. Ti fa odiare. Provati a dissimulare».
Il Conte, a Maclodio, spaccò il culo all'esercito di Filippo. Mangiò terra Carlo Malatesta, signore di Pesaro. E ingoiarono i ranocchi crudi della palude: il Della Pergola (anche se antico amico e compagno d'armi del Conte), Guido Torello e il Piccinini, detto Fortebraccio.
Ai Condottieri, nel campo del Duca, il cibo andò di traverso. Malatesta bevve troppo vino; così, pur essendo uomo che ambiva alla perfezione, sognò un diavolo con trecentomila ali. Fortebraccio divorò un intero castrato. Ciò accrebbe il suo furore per gli esiti della battaglia. Sforza leccò uova di storione che gli procurarono una sorta di allucinazione eroica. Soltanto il Pergola e Torello non desinarono. Anzi, pregarono. Torello, meglio di ogni altro e con lucidità, aveva compreso la geniale trovata bellica del Conte. Quella di fortificare il campo con un doppio recinto di carri, sopra ognuno dei quali stavano tre balestrieri. Per di più aveva visto non accecato dall'orgoglio, con sguardo onesto, che «quelle macchie che sorgon qua e là dal suolo uliginoso che la via fiancheggia: là son gli agguati, il giurerei». Ma poi, i Condottieri, stretti nella morsa del tempo, della fedeltà a Filippo, tramortiti dall'errore di mercanteggiare fra loro il proprio onore, decisero di attaccare. Caddero nella trappola degli insulti. Infatti le truppe del Conte si erano nascoste tra i cespugli sui lembi di terra asciutta, nel mezzo della palude che cingeva Maclodio. Altri, sul terreno nudo, ben visti dalle mura del castello, avevano preso a ingiuriare e a sfottere gli avversari che non si decidevano per la battaglia. Finalmente la guerra. Infine il Carmagnola geniale trionfatore. Ma i ratti schifosi della Serenissima, muti, gonfi più dei rospi, astuti e cinici, meglio infagottati nell'infamia degli stupratori, con la mente di chi tormenta un uomo al quale si tiene una pistola puntata alla tempia, condussero il Carmagnola a ficcare le unghie nella terra: affinché soppesasse la fatica della propria tomba. I Commissari veneti sospettarono il tradimento. Pretesero di scorgere il tradimento dove era innervata la sola onestà, l'onore di un uomo incorruttibile. Gli dissero: «Perché mai lei Conte libera codesti prigionieri? La loro prigionia non è forse pure essa pagata dalla Repubblica?».
«È nel codice della guerra», rispose loro il Carmagnola, «è nella parola data e non scritta del Duce, del Vincitore, lasciare liberi gli sconfitti. Io non sono servo di nessuno. E nessuno è mio servo. Qui sul campo io sono il padrone. Mi basta la vittoria. Non voglio sprecarla con altra morte».
Ma la dolcezza non fu compresa dagli uomini amari: perché è azzurra. Diamante raro.
Poi gli addebitarono la sconfitta per mare. E l'insurrezione di Cremona. Così, con il sotterfugio della riconoscenza, i topi lo richiamarono a Venezia.
Nel Palazzo il Doge gli disse: «Passato è il tempo di voler». Il Conte rispose con parole che ricorderanno in pochi perché di marmo. Anzi, parole che ricorderanno solo coloro che hanno saputo godere delle stagioni: sorridendo alla morte. «Indegno!/ Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti/ ch'io chiedessi pietà, ch'io ti pregassi:/ tu forse osavi di pensar che un prode/ pe' giorni suoi tremava. Ah! Tu vedrai/ come si mor. Va; quando l'ultim'ora/ ti coglierà sul vil tuo letto, incontro/ non le starai con quella fronte al certo,/ che a questa infame, a cui mi traggi, io reco».
Il cielo resterebbe implacabile se il Conte non l'avesse in sé. Il titanismo crollerebbe nella morte. In questo lutto nulla lo salva. Non è destinato come i personaggi dei Promessi Sposi (meravigliosi burattini al servizio di un cielo materno) a una protezione celeste e confermata dal taglio netto tra bene e male: il Conte è nel lutto e basta. Non può neanche illudersi di un erede maschio che lo vendichi. Dunque muore nelle segrete dei topi. Coi ferri in bocca che lo fanno schiumare. Con le sue gambe entra nel carnaio. Accanto ha la madre e il padre. Si sdraia sulla terra: nulla da temer più resta.
Sono solo. Pesto la ghiaia del Cimitero Monumentale. Entro nel Famedio, nel Pantheon dei Cittadini Illustri di Milano. Alessandro Manzoni è nel suo avello di pietra, eppure appare sprofondato in questa tomba di mosaici e pietre e vetrate e rosoni. La luce è grigina, verdolina e bianca e rosa (forse). Si irradia senza toccare il marmo del pavimento. Ai lati si leggono i nomi dei grandi cittadini: Giovanni Berchet, Massimo d'Azeglio, Antonio Rosmini, Silvio Pellico, Pietro Maroncelli. Sembra che la morte sia lontana. Non c'è traccia di cera che si squaglia. Né di fiori appassiti. Mi interrogo: Ma ci sono i corpi? Le ceneri? C'è almeno la memoria? Mi sento sfiorare la spalla. Mi volto. Vedo il fantasma. Ma non è il mio fantasma di donna. È il Conte di Carmagnola. Allora sorrido e comprendo la Storia, la Gloria, la Fama. E mentre mi avvio verso le altre tombe, egli mi segue come un'ombra - come la mia ombra.
Ci sono tre donne con il seno nudo. Una è sorridente e perfida; l'altra è paziente e implacabile; la terza è un po' triste. C'è una fanciulla bellissima quanto l'oro. Ha le ali di farfalla e il mazzolino di fiori lo preme sulla mammella. Lo sguardo è rapito. Una statua non è di vecchio ma di uomo malato, calvo, con i muscoli frollati, l'addome gonfiaccio e sfatto; c'è un gallo ai piedi della tomba.
Passeggiando noto quella di Ascari, l'asso del volante. Ci sono le donne (di pietra) che si disperano e quelle che nell'erba sono serene. C'è un leone vegliardo e il busto di una Madonna avvolto in un telo di plastica. C'è un Cristo staccato dai suoi amici dalla croce: i corpi di bronzo sono uniti e appesantiti dalla pioggia. Una meravigliosa pianta di ferro si arrampica su se stessa: è un mondo di spine. C'è un giovinetto vestito di scaglie di pane; ha delle braccine orribili; dall'espressione del volto si direbbe implori ciò che in vita non ha avuto. C'è una statua con la testa mozzata che sembra il fuoco: una fiamma materica come creta. Ci sono due scheletri che si abbracciano. Stanchissimi. C'è un blocco di marmo bombardato. Ci sono due buoi, un aratro; dietro il contadino. C'è una famiglia di argilla e una donna con le spalle nude che medita. C'è una stupenda tomba con il suo letto di morte.
Ho passeggiato a lungo nel
cimitero. Poi ho provato stanchezza per il bianco sbriciolato dei viali. Così mi sono voltato e ho visto che il Carmagnola era sparito. Allora ho avuto paura. La paura di conoscere nome e cognome del suo legittimo erede.
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