Tony Blair, certo già concentrato sulla sfida che lo attende, quella di riuscire a portare qualche speranza di pace al Medio Oriente come rappresentante e ambasciatore molto speciale del Quartetto, ha già avuto i primi segnali di quale è il rischio che corre: quello del grande elemosiniere di corte. Forse non ce ne siamo accorti, ma domenica si è mosso un treno che seguiteremo a seguire per un bel pezzo: Olmert ha fatto versare 118 milioni di dollari delle tasse di palestinesi (in tutto sono 600 milioni) a Abu Mazen, una gran massa di denaro comincia a muoversi verso Fatah, anche lEuropa ha sbloccato i fondi. È un semplice tentativo di rafforzamento di Fatah a fronte di Hamas che si accorda con la scelta di promuovere in Medio Oriente unalleanza moderata contro lintegralismo islamico, lodierna speranza di tutto il mondo. È per guidare uno sforzo immane e importantissimo, appare evidente, che un personaggio di così alto profilo come Tony Blair è stato nominato, con grandi benedizioni da parte degli Usa, a rappresentare il Quartetto in Medio Oriente. Naturalmente, Blair sta cercando di disegnare una strategia degna di questo nome, che non si fermi agli aiuti. Anche lui sa bene che Abu Mazen è debole, che la sua gente non lo ama perché è circondato, oltre che da moderati, anche da corrotti e terroristi. Tony Blair dunque deve andare oltre gli aiuti ai moderati, scavalcare la speranza zoppicante di Condi Rice di affrontare lattacco islamista con unalleanza sunnita, andare oltre lillusione che il tema land for peace, buono solo per chi è laico e non religioso, risolva i problemi. Può farcela a disegnare una road map tuttaffatto diversa? Intanto, è molto positivo il fatto che egli sia Blair, che lo debba dunque a se stesso: ha solo 54 anni, deve ancora trovare la strada dei libri di storia, del grande achievement. Trovarlo proprio nel Medio Oriente sarebbe per lui la vera rivincita, date le tante critiche sullIrak. Ha la fiducia delle parti? No, gli estremisti musulmani, da Hamas allIran, hanno già detto che Blair davvero non va, che la sua alleanza con Bush lo depriva di credibilità. Ma sanno anche, per esempio, che Blair ha più volte ripetuto una cosa che gli israeliani odiano sentir dire, ovvero che la radice del conflitto mediorientale è nello scontro israelo-palestinese. Daltra parte Israele lha perdonato, gli ha dedicato svariate esclamazioni di benvenuto, ha ben preso nota del fatto che si allontanò coraggiosamente dalle accuse durante la guerra del Libano di avere agito «sproporzionatamente»: ma ricorda che Blair fu fra le voci più insistenti per un cessate il fuoco precoce, non è un filo israeliano a tutti i costi. Però è un personaggio singolare: finora ogni inviato internazionale fuorché gli americani sono stati visti da Israele come critici implacabili e nemici possibili. Blair invece, benché non sia certo un neoconservatore, è un personaggio di principi saldi, di fede occidentale, sostenuto dagli Usa ma fedele solo a se stesso, genuinamente convinto, alla Churchill, che lo Stato degli ebrei è legittimo e indispensabile, che deve vivere e che è anche ammirevole (nessuno giurerebbe che Xavier Solana, per esempio, pensi lo stesso).
Blair ha accettato perché pensa di farcela, e non va alla battaglia carico di tutti i soliti pregiudizi antisraeliani che impediscono alla fine una cosa molto importante: identificare i partner in giuoco senza farsi travolgere dal vittimismo-trionfalismo arabo e attribuire con autorità a ciascuno le sue responsabilità. Se Blair capirà le forze in campo, si guarderà bene dal lanciarsi allaiuto cieco di Abu Mazen. Ma chiedere in cambio che egli smantelli le milizie armate, sarebbe di nuovo una perdita di tempo: le Brigate di Al Aqsa hanno già risposto picche alla richiesta di consegnare le armi in cambio di posti nelle strutture armate di Fatah. Quindi tutto ciò che Blair può chiedere a Abu Mazen è un consolidamento della democrazia, senza, per carità, elezioni anticipate in cui può vincere Hamas di nuovo. Può pretendere la modifica completa del sistema educativo, la libertà dei media, la promozione di personaggi al di sopra delle parti, può chiedere limpiego trasparente del denaro con severi controlli, la promozione di gruppi sociali e culturali; può pretendere un atteggiamento completamente diverso verso i terroristi e anche lapertura al dialogo con Israele, di un pubblico discorso diverso sullo Stato degli ebrei. Blair deve insomma tentare di cambiare il dischetto del «processo di pace» in Medio Oriente: land for peace non funziona già dai tempi di Arafat, egli deve riuscire a dichiararlo: è una realtà difficile da elaborare, il mercato delle idee non è florido, dato che è stato attuato da anni il blocco moralistico di ogni pensiero. Se lo fa, anche Israele dovrà muoversi e fidarsi: Blair può chiedere a Olmert di procedere con il denaro e laiuto umanitario e anche con lo sgombero degli outpost, può promuovere una politica di sblocco di posti di blocco dentro lWest Bank senza obiettare invece, sia chiaro, ai controlli quando si tratta di entrare in Israele, dato che il pericolo è reale e terribile: ma i palestinesi devono poter godere di maggiore possibilità di movimento in Cisgiordania e verso i Paesi arabi, senza mettere gli israeliani in pericolo. Questo può essere un buon orizzonte per sperimentare autonomia e autogestione che portino, se sarà realistico avere un gruppo dirigente responsabile, allo Stato. È ipotizzabile anche che Blair debba cercare nuovi orizzonti verso la Giordania, perché anche se adesso il re Abdullah è molto sospettoso di ciò che la storia gli ha insegnato nei rapporti fra Hashemiti e palestinesi, pure oggi ha un forte bisogno di rafforzarsi a fronte del pericolo iraniano che lo colpisce tramite Siria e vie di comunicazione con lIrak, mentre i palestinesi hanno disperato bisogno di un punto di riferimento vasto e autorevole. Un rinnovato rapporto fra i palestinesi e i giordani potrebbe certo aiutare.
Fiamma Nirenstein
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