Roma Via. Subito. «Voglio Fini fuori dal partito. Il modo trovatemelo voi, limportante è cacciarlo». Da oltre 48 ore Silvio Berlusconi ripete le stesse parole. È come un mantra: «Quello lì non lo voglio più vedere». E infatti, al primo incontro ravvicinato, non lo guarda nemmeno. In mattinata i due si lambiscono a Montecitorio. Uno seduto sul suo scranno istituzionale, laltro nellemiciclo a parlare con i deputati della maggioranza. Neanche unocchiata, nessun cenno di saluto. Plasticamente divisi e separati. Lontani.
Fosse per lui, lo avrebbe già cacciato: ma Fini al Pdl non si è mai iscritto, lespulsione può essere solo «politica». Basta comunque con le mediazioni e i tentativi dei pontieri: non è più tempo di colombe, Letta e Confalonieri si mettano il cuore in pace. Berlusconi vorrebbe pure fargli lasciare la presidenza della Camera, infatti è una delle prime cose che dice quando alle 21,30, dopo le «sanzioni», si presenta in conferenza stampa: «Allo stato viene meno la fiducia nel suo ruolo di garanzia. Le sue dimissioni? Noi riteniamo che siano i membri del Parlamento a dover prendere delle iniziative al riguardo. Basta con il gioco al massacro. Le posizioni dellonorevole Fini sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo delle libertà, con gli impegni assunti con gli elettori e con lattività di questo governo».
Fuori, dunque. «Abbiamo ritenuto che il Pdl non potesse continuare a pagare il prezzo alto di mostrarsi un partito diviso. Non sopporto che i giocatori della stessa squadra litighino negli spogliatoi». Il premier spiega che non ne poteva proprio più: «Si è presentato un dissenso da parte di Fini e degli uomini a lui vicini nei confronti del governo, della maggioranza e del presidente del Consiglio. Io non ho mai risposto, anzi ho sempre smentito quanto mi veniva attribuito sui giornali. Abbiamo tenuto un comportamento responsabile, vista la crisi che abbiamo attraversato». Ora però, «dopo aver approvato una manovra che ci chiedeva lEuropa, è stato necessario fare chiarezza tra di noi».
Quindi, si potrebbe dire, è stato Berlusconi a resettare. Finché le critiche e i contrasti riguardavano temi politici, finché Gianfranco si smarcava sullimmigrazione, sulla bioetica, persino sul federalismo, anche se «gli attacchi duravano da un anno», pazienza, si poteva ancora considerare una forma di dialettica. Ma da quando, qualche giorno fa, Fini ha cambiato terreno e ha sollevato la questione morale, Berlusconi lha presa come un attacco personale. A quel punto la strada per un riavvicinamento si è chiusa per sempre: «Nessuno può fare il moralista». Per non parlare dellintervista al Foglio, parole considerate «inutili e tardive»: più che unofferta di tregua, era un tentativo di salvarsi in extremis. «Come può pensare di resettare tutto se solo due giorni fa chiedeva le dimissioni di Verdini e copriva le sparate di Granata?».
Da qui gli incontri frenetici, le riunioni, i contatti scandiscono la giornata del divorzio. Lo strappo con Fini deve essere chiaro a tutti, sancito con un atto ufficiale. Il testo viene corretto e ammorbidito più volte, poi è Berlusconi stesso a impuntarsi: «Non mi interessa se non ha la tessera e se non possiamo cacciarlo. Io voglio che il nome di Fini compaia nel documento». Non cera, sostiene, altra strada perché «era nata una vera opposizione interna, un partito nel partito con lobbiettivo di creare unaggregazione alternativa al Pdl».
Colombe a terra, ma secondo il Cav il quadro politico non corre rischi. «Riteniamo che il governo non sia in pericolo. Abbiamo la maggioranza nel Paese e il presidente del Consiglio gode di un consenso di oltre il 63 per cento». Fini farà dei gruppi suoi? Il premier fa spallucce: «In queste ore si è susseguita unaltalena di numeri... ma, al di là delle cifre, è emerso che non si poteva più continuare così. Ora sono finiti i teatrini e lo stillicidio».
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