Facebook per un attimo si è fermato. La scena più o meno è stata questa. È come se Silvio Berlusconi fosse entrato in uno dei bar della piazza di paese. I clienti che stavano lì lhanno guardato, riconosciuto, sono arrivati altri, prima a gruppetti, poi in massa, lui ha sorriso, li ha salutati, un breve discorso e poi è andato via. Quando è uscito tutti si sono messi a parlare, qualcuno urlava, sbraitava, malediva, voleva sfasciare il locale, altri applaudivano e ringraziavano. Ed è scoppiata quasi una rissa. Facebook spesso è maledettamente reale.
È la prima volta che il Cavaliere mette piede in questa costellazione di piazze, lagorà delle agorà, il non luogo dove 400 milioni di persone passeggiano, chiacchierano, si raccontano, passano il tempo e qualche volta fanno politica. Berlusconi divide, cè gente che non nasconde il suo odio, ma una cosa bisogna ammetterla, il suo arrivo rende Facebook più vero. Come racconta Paolo Bonaiuti: «Era da tempo che voleva andarci». Immaginate il Cavaliere che cerca di convincere le persone una ad una, risponde alle domande, cerca di spiegare le sue idee, i suoi progetti, parla di riforme, sente come un rabdomante quello che gli italiani vogliono. Lagorà, in fondo, è una sua dimensione. È un «predellino», o come dicono i suoi collaboratori una sorta di gazebo. Magari tutto questo non gli appartiene per generazione, lui che ha confessato di non usare neppure le e-mail, ma come filosofia, come luogo «pop», dove pop sta per popolare, è qualcosa di molto vicino. Prima o poi, giurano, potrebbe farsi unaltra passeggiata.
Qualcuno lo accuserà di populismo, ma non lo hanno fatto con Obama. Luomo del «yes we can» è qui che ha cominciato la sua avventura politica. È qui che ha cominciato a vincere le primarie. È qui che ha raccolto (oltre alle vecchie lobby) i fondi per la sua campagna elettorale, 600 milioni di dollari, donati da 3 milioni di persone. Obama era una outsider e su Facebook ha venduto la sua storia. Si è raccontato, parlando di sé, come ultima incarnazione del sogno americano. Non ha vinto grazie al mondo due punto zero, ma questo mondo gli è servito da specchio. Non a caso lex senatore dellIllinois ha arruolato nella sua squadra, fin da subito, un certo Chris Hughes, uno degli sponsor di questo social network che si basa sulla filosofia dellamicizia. È quella che Jeremy Rifkin chiama era dellempatia. Condividere. Partecipare. Qualcosa che fa parte del dna politico di Berlusconi e di Obama. E, anche se può apparire blasfemo, anche di miti del passato come J.F.K o di fenomeni ancora da decifrare come la ragnatela di Grillo. Facebook riproduce in scala globale quello che da sempre è stato il sale della politica, la ricerca del consenso. È la stessa filosofia dei senatori romani nel foro e delle politiche democristiane porta a porta. Cambia il mezzo, non la ratio. Solo che tutto diventa più grande, virtuale e quindi più vicino da raggiungere. È un «porta a porta» da qui allAlaska. E poi qui tutti possono giocarsi i «cinque minuti» di celebrità, ma il difficile non è questo. La vera sfida è rendere quei cinque minuti qualcosa che resta. Obama e Berlusconi ci sono riusciti.
Facebook è anche uno specchio, un termometro, un indicatore di popolarità a pelle, senza troppi sondaggi. È immediato. Se si va a vedere il numero di fan di politici italiani si scopre che Berlusconi era in testa a novembre e lo è anche adesso. Quelli che sono cresciuti sono Grillo e Vendola. Ed è il segno delle Regionali.
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