Il simbolo di Hollywood? Un toro finto

Arrivato in California come ospite del Centro di scrittura creativa «John Fowles» dell’Università di Orange, ho deciso di concedermi due giorni solitari di vacanza a Los Angeles prima di entrare nel vivo del lavoro e incontrare scrittori, professori, studenti. Sono fatto così. Mi piace vedere le cose per mio conto, divagare, non seguire itinerari prefissati, non sostare troppo nei musei.
In due giorni non si può capire questa città centrifuga, discontinua, contraddittoria, estesa come in Italia una provincia intera. Ma non pretendo tanto. Una puntata a Santa Monica con i suoi moli, le sue spiagge, la sua Third Street mi sembra inevitabile, anche se ho lo sguardo teso costantemente a nord, verso Pacific Palisades, dove ha vissuto i suoi ultimi anni Henry Miller. Poi decido di fare una corsa attraverso Down Town con un taxista di cui non capisco la nazionalità, la lingua, nulla. Lui capisce ancora meno, se è per questo. Cosa voglio andare a fare a Down Town? Allarga le braccia, mi gira più volte un quadernetto su cui dovrei scrivere un ipotetico indirizzo, ha un’aria smorta, quasi intontita, una coperta bluastra e lisa sulle gambe. È inutile dirgli, che so, Disney Hall, o Union Station, lui non ne sa nulla. Lui vuole una via e un numero, per digitarlo sul navigatore. Quando lo accontento, dicendogli il nome di una via e il numero a cui ricordo che dovrebbe trovarsi un caffè dove un mio amico va a bere e a leggere i giornali, riprende vigore e parte deciso.
Arriviamo sotto la selva luccicante di grattacieli, attraversiamo Broadway, il barrio messicano colorato e pieno di bancarelle, di musica e di odori di fritto che sembra di essere anche più a sud del Messico, a Caracas o a Lima, sottopassaggi fuligginosi dove sui marciapiedi dormono esseri inermi e così soli che, anche se fossero morti, nessuno se ne accorgerebbe, quartieri in cui i senzatetto vagano con i carrelli da supermercato rigurgitanti di sacchetti neri della spazzatura. Per approdare infine alla desolazione di una strada tra fabbriche dismesse, capannoni abbandonati, lamiere contorte, edifici dalle porte e dalle finestre sbarrate. Né il mio amico, un uomo molto elegante, né l’ultimo dei disperati prenderebbe un caffè lì. Così, una volta tornato e pagato al taxista un conto spaventoso, decido di restarmene nelle vicinanze del mio albergo.
Ne avevo scelto uno su internet all’ultimo momento, uno il cui indirizzo mi sembrava promettente: Sunset Boulevard, 8400. Francamente, ero andato a orecchio, il suono mi piaceva, e mi ero fidato. Il prezzo della camera, oltretutto, era meno caro di quelle degli alberghi che frequento a Milano. Ed è stato così, per pura combinazione, che mi sono trovato catapultato nel cuore di Hollywood. L’albergo è in stile vagamente tropicale, tutto immerso in cascate di buganvillee rosso chiaro, con una piscina scoperta in funzione anche a febbraio. In questi giorni di consegna degli Oscar una coloratissima fauna di gente con appeso al collo un cartello su cui «Oscar» è scritto con caratteri grandi e cangianti si aggira tra la piscina e la hall, dove invece delle consuete caramelle c’è un vaso di mele rosse da cui tutti attingono passando con telecamere, macchine fotografiche, computer, palmari in mano. Nell’albergo di fianco, fervono i preparativi per il party di Vanity Fair dove è attesa Jennifer Aniston. Deve essere una festa super, beh, hollywoodiana, questa volta è il caso di dirlo. Da cinque o sei camion un esercito di inservienti sta scaricando ogni ben di Dio, ma quello che mi colpisce sono vasi enormi e riproduzioni in plastica ad altezza d’uomo di bottiglie, che non so a cosa mai possano servire.
Sunset Boulevard tradotto in italiano suona come Viale del tramonto, assume subito una connotazione metaforica e naturalmente cinematografica. In realtà è una strada lunghissima che attraversa la città in modo tale che al calar del sole gli ultimi raggi la prendono di infilata e la illuminano di una luce lunga e formicolante. Se dal mio albergo prendo a sinistra, il Sunset dopo pochi passi incrocia La Cienega boulevard. È uno dei punti più spettacolari della metropoli. La Cienega boulevard scende a precipizio, lunghissimo, rettilineo con soltanto alcuni piccoli scarti, sin verso il mare. Non sembra una strada, ma un canyon tagliato nel corpo della città. La notte una marea di lava lo percorre in un senso, e nell’altra un luccicare continuo, densissimo di polvere di stelle dorate.
Se prendo a destra, passo da West Hollywood a Hollywood propriamente detta. Uscire con le mani in tasca, fare due passi e trovarsi di fronte a un pannello stradale che annuncia che entri nella mecca del cinema, su uno come me cresciuto a western e musical, una cultura e una passione cinematografica popolare di cui non mi sono mai pentito, produce ancora un certo effetto. Qui vicino è il Chinese Theatre, il tratto di marciapiede con le impronte dei divi, il Kodack Theatre dove avviene la cerimonia della consegna degli Oscar. Arrivo davanti al Chateau Marmont, un edificio in stile neogotico, la riproduzione fedele di un castello della Loira, grigio e turrito e tutto aguzzo, costruito nel 1929, dunque, per la California, di una età veneranda, che è l’albergo storico di Hollywood.
Leggere i nomi delle attrici e degli attori che vi hanno abitato è come ripassare un manuale di storia del cinema. Errol Flynn, Clark Gable, Marilyn Monroe, William Holden, Paul Newman, Dustin Hoffman, Sidney Poitier, Greta Garbo ... E ci fa ricordare che da qui, da queste colline scoscese, punteggiate di ville a volte sospese nel verde come su palafitte, si è irradiato nel mondo il messaggio più vincente, quello grazie al quale l’America ha conquistato l’immaginazione e il cuore di generazioni su tutto il pianeta: la sua certezza che il mito e il sogno sono ancora possibili, che si possono raccontare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’amore e l’odio, la bellezza e il terrore dell’universo, su uno schermo illuminato nel buio profondo di una sala cinematografica.
La sera finisco al Saddle Ranch, il Ranch della Sella, un locale tutto in legno, con un banco circolare nel centro dove mi seggo per bere una Budweiser e mangiare una insalata i cui ingredienti mi rimarranno del tutto sconosciuti, agli occhi e al palato. Non è male, però. Male è la musica che frastorna, certi tavoli con facce sbiancate, capelli decolorati, piercing, occhi vuoti e ghigni diabolici, in un clima alla Marilyn Manson, atroce. Me ne andrei subito, non fosse per la presenza di quel toro. Un toro in mezzo al locale. Finto, beninteso, ma di dimensioni naturali, che un marchingegno invisibile mette all’improvviso in movimento. E allora è il rodeo. Gli avventori provano a cavalcarlo. E fin lì è niente. Il bello è quando prova una avventrice, che indossa gonne molto corte. Tutti si assiepano intorno.

Il toro sobbalza e tenta di scrollarsi di dosso la ragazza, che si dimena e apre e alza le gambe sempre di più. E resta in sella, tra applausi scroscianti.
Horror, finzione, divertimento, sesso, e tutto mescolato insieme, in pochi metri quadrati. È Hollywood, bellezza...

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