Adriano Sofri è stato ospite ieri sera da Fabio Fazio. Ha parlato per una mezz’ora, e i responsabili della trasmissione - consci delle polemiche che sempre accompagnano le comparsate di Sofri in tv - hanno fatto in modo che tutto si svolgesse nel modo più sobrio possibile, senza applausi né all’ingresso né durante l’intervista. Una cautela doverosa, direi il minimo che si potesse fare per rispetto ai familiari del commissario Calabresi. Ma è un minimo che non basterà a placare la sofferenza di chi è rimasto senza marito e senza padre: nel suo libro «Spingendo la notte più in là», Mario Calabresi ha scritto che ogni volta che vedono Sofri in cattedra, lui sua madre e i suoi fratelli non solo rivivono il proprio dolore, ma provano il senso di un’ingiustizia. Credo che di questo sentimento i familiari delle vittime abbiano sempre diritto.
Sofri ha presentato il suo nuovo libro, «Chi è il mio prossimo», e debbo dire che non solo non ha detto cose banali (questa non è una novità) ma ha anche parlato con una chiarezza che a volte gli fa difetto per eccessiva ostentazione di intelligenza. Il Sofri di ieri sera ci è parso, paradossalmente ma non troppo, molto simile al suo amico Giuliano Ferrara: affascinato, forse ossessionato da un cristianesimo che riconosce come suprema morale per l’uomo ma di cui non riesce a cogliere l’essenza ultima.
Non ha parlato neppure con l’arroganza che tante volte gli viene contestata. Solo in un paio di occasioni non ha rinunciato alla sua tendenza a fare il maestrino con la penna rossa, prima correggendo Fazio che l’aveva appena introdotto («Sono in detenzione domiciliare, non agli arresti domiciliari») e poi addirittura rettificando Benedetto XVI, che a suo dire non avrebbe capito chi è, secondo Gesù, il nostro prossimo.
Ma limitare a queste osservazioni quanto detto ieri sera da Sofri significherebbe peccare di pregiudizio; peggio, di faziosità. Debbo dire - a costo di creare qualche fastidio - che molte delle parole di Sofri nel salotto di Fazio sono degne della massima considerazione. Ad esempio quando ha spiegato in quale errore - sia pure «commesso con le migliori intenzioni» - sia inciampata la sua generazione quando confondeva l’amore per l’uomo con quello per l’umanità. Sofri ha fatto un parallelo tra Alexander Langer - un suo amico, un ex militante di Lotta Continua morto tragicamente - e don Lorenzo Milani. «Alexander - ha detto Sofri - diceva che amare il prossimo vuol dire cercare di migliorare la vita del maggior numero possibile di persone, e si è ucciso proprio perché ha preso atto dell’impossibilità di aiutare il mondo intero. Don Milani invece scelse di restare in una parrocchia di sole 38 anime, e diceva: chi ama veramente Dio ama solo poche persone. Un giorno mi disse: nella vita al massimo puoi amare 3-400 persone. Mi colpì il fatto che fissava un numero, un limite. Aveva ragione don Milani».
È, in fondo, il riconoscimento del fallimento dell’utopia sessantottina, della confusione tra «gente» e «individui». Sofri ha detto anche altre cose intelligenti su quella stagione, ad esempio quando ha esteso agli anni della contestazione la legge dell’eterogenesi dei fini: «Con le migliori intenzioni si combinano dei disastri, e anch’io ho procurato tanti danni pensando di fare cose giuste».
Però è proprio in altre battute sul Sessantotto che Sofri è purtroppo ricaduto nella sua abitudine alla non chiarezza. «Detesto le sue celebrazioni ma le sue denigrazioni sono peggio», «Non bisogna vantarsi né di averlo fatto né di non averlo fatto»...
Mentre scriviamo arrivano in redazione, una dietro l’altra, le proteste dei familiari delle vittime del terrorismo per la comparsata tv. Perché quando parla Sofri infastidisce più di ogni altro condannato? Forse è proprio perché su quegli anni non ha mai fatto chiarezza fino in fondo. Non l’ha fatta neppure sulla vicenda che l’ha portato in carcere. La stessa vicenda, raccontata dalla parte delle vittime, è chiara, lineare: chi legge il libro di Mario Calabresi capisce perfettamente che cosa ha vissuto lui. Il racconto di Sofri è sempre nel chiaroscuro, nel detto e non detto, nell’ammesso e non ammesso. Chi ha seguito il processo ha avuto perfino l’impressione che Sofri, se è innocente, ha evitato di accusare altri per orgoglio.
Questo giornale, a partire da Indro Montanelli, ha sempre riconosciuto che Sofri è oggi uomo ben diverso da quello che fu. Ma se ancora attira su di sé tanta avversione, forse è proprio perché su quel passato non ha ancora detto tutto. Forse. O forse è solo un’impressione.
Michele Brambilla
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