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Sogni e chitarre infuriate sull’astronave del rock

A Torino settantamila in delirio per la «prima» del rocker mai così trascinante

Sogni e chitarre infuriate sull’astronave del rock

Cesare G. Romana

da Torino

Se è vero che «c’è chi dice no», vivaddio, allora siamo in molti, almeno settantamila, a dire no a questo mondo di «ipocriti, abili, mai colpevoli, mai coi deboli, buoni stomaci». Settantamila a dire no, e dunque sì al Blasco, al fecondo elettrochoc della sua musica, qui allo stadio delle Alpi estenuato dall’afa torinese e ravvivato però da un Vasco Rossi mai così trainante e gioioso, ebbene sì, gioioso ad onta delle cose che dice e che canta.
Sarà perché «quando sono sulle nuvole/mi sento un po’ instabile/però è un gran bel film», avverte lui stesso all’inizio, minuscolo e debordante al centro della grande astronave d’acciaio, le chitarre infuriano e il ritmo macina euforie e rabbie, ma è nulla rispetto al boato della folla, le settantamila formichine in deliquio, gli striscioni che sventolano, le mani levate al cielo. Insomma, trionfo.
Il Blasco racconta, ammettiamolo, cose non liete, mica è qui per consolarci e come potrebbe, una volta sì ma «erano giorni di sogni/erano vere anche le utopie». Ma ora «che non tremo nemmeno per amore/ci vuole quello che non ho/ci vuole pelo sullo stomaco», canta in Stupendo. Eppure anche così riesce a trasmettere gioia, ma sì, «dimentichiamoci questa città/con i suoi guai», o meglio ancora «guardala in faccia la realtà/è meno dura/e se c’è qualcosa che non ti va/dillo alla luna», consiglia, leopardianamente, ché né la luna né i sogni tradiscono mai chi li frequenta.
Ottimista? Forse è l’effetto d’un lungo momento magico, le ottocentomila copie vendute da Buoni o cattivi, che non è neanche il suo disco migliore, la laurea honoris causa, un libro, Le mie canzoni, in vetta alle classifiche. Sicché circola una strana, anomala ma contagiosa positività, chiamala se vuoi serenità, in questo concerto che inaugura la ripresa del tour dell’altr’anno, ma con qualche aggiustamento di tiro e qualche seduzione supplementare, nella reimpaginazione della scaletta e nel conseguire dei brani, mai casuale. Così da formare una sorta di vademecum per apprendisti del mestiere di vivere, il più difficile e che il Blasco, lo sanno tutti, ha dovuto imparare non senza asprezze e scogli, scegliersi una vita spericolata reclama un suo prezzo, «voglio una vita che se ne frega», direbbe il vecchio McQueen, ma poi tutto si paga.
Del resto che è mai la vita, se non «un brivido che vola via/un equilibrio sopra la follia», annuncia Vasco in Sally, che è la sua canzone più bella e cantautorale, la più saggia ed emozionante. Eccolo dunque, nel catino bollente di questa notte torinese, viaggiare in equilibrio sofferto, ma perfetto, tra la cognizione della realtà e la panacea del sogno, ché non si conosce rimedio migliore al male di vivere. Donde la gioia diffusa, oceanica, che il concerto dilata. Proprio così: «Se hai bisogno di me e non mi trovi/cercami in un sogno», esorta il Blasco e figurarsi quanto è tonante l’adesione dei settantamila, da far tremolare le stelle. Il sogno: la ricetta deve essere efficace, se sul mare di teste garriscono striscioni dal tenore inequivoco, per esempio «Dottore in felicità», azzarda uno, in lettere sanguigne. O ancora: «Tutti nel tuo stupido hotel», «Noi diciamo no», «Buoni o cattivi ma con te», «Con te non siamo solo noi». E i più prevedibili «Con te per sognare», «Bollicine d’amore», «È sempre Albachiara», tanti modi per prendere i titoli più amati del Blasco e farli diventare voce di tutti, come del resto parve auspicare lui stesso, augurandosi, in un brano del 2001, che nasca «una canzone senza il cantautore/una canzone dove le parole/tutti se le possano inventare».
Come succede, in fondo, quando la folla s’impossessa d’un brano e lo trasforma in coro: quasi a prenderle sul nascere, queste piccole, umorali, vibranti storie di vita, e scortarle fino alla fine, renderle epiche e stentoree ma soprattutto di tutti. Con la voce-guida di Vasco, s’intende, umbratile e squillante secondo gli spostamenti del cuore. E la band, «la migliore del mondo», dice lui.

Magari penalizzata dall’acustica dello stadio, e tuttavia assai complice, con la ritmica inesorabile di Golinelli e di Bairds, le tastiere di Rocchetti, le chitarre versatili di Burns, Solieri e Mori, i fiati di Innesto e di Nemola, il controcanto puntuale di Clara Moroni e il fresco rock di Simone, tornato dai fasti o nefasti di Music Farm, a far da prologo.

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