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SOLDATI Alla scoperta di un grande

Come un giovane scrittore si imbatte in un «collega» del passato, se ne innamora e inizia a fare proseliti...

La mia estate è cominciata in una trattoria di Roma, davanti a una cotoletta. Era un’umida serata di fine luglio e il mio amico Raffaele Manica mi stava tessendo le lodi del primo dei Racconti del Maresciallo di Mario Soldati, intitolato Il ricordo. Un uomo è morto in un incidente stradale. Il maresciallo Arnaudi trova l’auto rovesciata giù da un argine e il cadavere a un centinaio di passi, rivolto verso la vettura: la vittima sembra essersene allontanato ancora agonizzante, per poi cercare di farvi ritorno. Arnaudi, che conosceva il poveretto - sposato con due figli -, segue le tracce di sangue fino a un canale ghiacciato; nel mezzo, appena visibile, un piccolo rettangolo nero: è il portafogli della vittima, che questi deve aver gettato senza accorgersi che il canale era gelato. Dentro c’è la fotografia di una donna che non è la moglie. Arnaudi l’estrae, se la mette in tasca e consegna il portafogli all’autorità giudiziaria. Sono passati dieci anni da quel giorno, quando il maresciallo racconta la storia a Soldati. Gli mostra quella foto che ha conservato: «Le mani, pallide e magre, gli tremavano leggermente. All’anulare, brillava l’oro della fede».
«Punto. Dieci paginette. Straordinarie», mi dice Manica mentre riempie il bicchiere con un vino d’un bianco verdognolo, forse della stessa tinta di quello che trincavano generosamente Soldati e l’Arnaudi nelle loro serate alle Tre Ganasce. «Ah, sì, me lo ricordo», faccio io, mentendo. Non ho mai letto quel racconto, per la verità non ho mai aperto un libro di Soldati in vita mia, credendo d’essere nel giusto visto che quella serie d’imperdonabili errori che chiamiamo Storia della Letteratura ha espunto da tempo il suo nome dall’elenco dei grandi del secolo scorso. Troppo commerciale, lo giudicavano Vittorini e Calvino sulle pagine de Il Menabò; per non parlare di quelli del Gruppo ’63, per i quali se Bassani e Cassola erano «le nuove Liale», Soldati doveva equivalere una Barbara Cartland. Eppure, perché avevo mentito a Raffaele? Era, la mia, una reazione tipica all’angoscia del parvenu di fronte alla propria ignoranza? Forse. Ma c’era qualcosa di più: la fiducia riposta nel giudizio critico di Raffaele veniva per così dire rafforzata dalla suggestione che derivava da quel racconto «di terza mano» - Raffaele che mi racconta ciò che Soldati finge gli sia stato raccontato dal maresciallo. E poi quella frase - «all’anulare, brillava l’oro della fede» - mi pareva superba.
Dicevo che la mia estate è iniziata quella sera, a cena con Raffaele Manica, perché nell’ultimo mese e mezzo ho letto solo Soldati: nell’ordine, La giacca verde, Le lettere da Capri, Fuga in Italia, Il padre degli orfani, America primo amore, La busta arancione, Cinematografo e, buoni ultimi, I racconti del Maresciallo. Ora, io capisco che chi legge un articolo sulla pagina culturale di un quotidiano vuol credere che chi scrive ne sappia più dei propri lettori. E dunque perdonatemi se a molti di voi - che hanno letto e apprezzato Soldati prima di me - sto facendo perder tempo. A coloro che non vi si sono mai avvicinati, poi, devo confessare che mi manca la prospettiva critica per abbozzare un giudizio articolato su questo arcigno torinese. Ho solo letto alcuni dei suoi libri, e vi dico: andate in libreria e comprateli.
Seduto sulla sdraio, circondato da palette, secchielli, castelli di sabbia e infradito, ho trascorso i pomeriggi d’agosto con la segreta speranza che si rinnovasse il miracolo per cui prega ogni buon lettore: una manciata di pagine che riesca a catturarci a tal punto che il mondo, lì fuori, scompaia - e, puf!, ecco che ammutoliva l’incessante rutto dell’onda, la linea dell’orizzonte cadeva di schianto sulle barche all’ormeggio come una saracinesca, e al posto dello spettacolo multicolore di una spiaggia sovraffollata s’andava sostituendo il paesaggio soldatiano, l’Italia virata a seppia dei suoi anni Quaranta: culoni di donna che sorridono dalle biciclette, osterie dove «si fa la partita» e si taglia il salame col temperino; ma anche la Roma di via Margutta e di Cinecittà, la Milano della Scala e il Quisisana di Capri. Il Soldati che alla televisione compie il suo Viaggio nella Valle del Po non è certo uno scrittore provinciale, uno di quelli ai quali Arbasino augurava almeno una gita a Chiasso: basti pensare al suo America primo amore in cui racconta i due anni trascorsi negli Stati Uniti all’indomani del crollo di Wall Street; oppure al suo romanzo più bello, Le lettere da Capri, dove veniamo sballottati da Roma alla Costiera, da Parigi a New York, per inseguire Harry, sua moglie Jane e la magnifica puttana Dorothea che ad Ostia emerge dall’acqua, «stillante di infinite gocce che sulla sua pelle bruna parevano preziose. La vedevo di schiena, sdraiata sulla sabbia e appoggiata ad un gomito in una posa abbandonata e monumentale: ed era come se, per uno strano prodigio, avessi potuto contemplare il rovescio di una pittura famosa, un’odalisca che Delacroix aveva rappresentato di faccia».
Al di là degli scenari, è lo sguardo che conta. E quello che getta Soldati pure sulle pagine di storia più risapute ce le restituisce come nuove. Basti pensare ai treni carichi di disperati in rotta dopo l’8 settembre che vengono ritratti in Fuga in Italia: «Ciascuno vuol raggiungere la propria casa, il proprio letto, la mamma, la ragazza. \. Non si veggono carabinieri, né militi, né guardie. Soltanto ferrovieri: gli unici rimasti in piedi, gli unici che ancora funzionino. Senso del dovere, abnegazione: tradizione ottocentesca dei nostri ferrovieri. Si tramandano il mestiere, molto spesso, di padre in figlio. Un blocco, dalla famiglia allo Stato. E oggi, con questa eccezione, lo Stato italiano è scomparso, frantumato, polverizzato. È soltanto un immenso agglomerato di famiglie».
Più avanti, in quel viaggio, Soldati incontra un motociclista tedesco. In una manciata di righe, la descrizione di quell’incontro riesce a dire più di quanto abbiano saputo fare interi volumi di storia: «È un bel ragazzo magro, abbronzato, ridente, capelli rasati, calzoncini corti; ha l’aria sana, sportiva e di buona famiglia. Mi dà una notizia che mi agghiaccia e a cui fingo di rallegrarmi: “Die Amerikaner Kaputt in Salerno!”. Ma purtroppo, non fingo soltanto per prudenza né per astuto calcolo, con lo scopo di ottenere il passaggio a Benevento. Questo tedesco è, per me, un nemico, un nemico dell’Italia. Ora, difficilmente un nemico si presenta in forme più allettanti, più simpatiche. E io provo un piacere morboso, segreto, a parlare con lui in tedesco, a fingermi suo amico. Un gusto intimo di contraddirmi, come quando andiamo a letto con una donna che non stimiamo e che ci piace proprio perché non la stimiamo. Che non sia analogo il sentimento che ha spinto alcuni intellettuali italiani verso fascismo e nazismo?».
Gli «eroi» di Soldati giocano tutti una partita persa in partenza contro il peccato: «Ognuno di noi fa non soltanto il bene, ma anche tutto il male che può», scrive in Le lettere da Capri. E poi: «V’è un’astuzia propria delle passioni più vili; le quali, allorché primamente ci assalgono, badano soprattutto a non allarmarci. Per meglio insinuarsi in noi, si mascherano di leggerezza. Poiché la nostra ragione vi ripugna, cominciano a tentare la nostra vanità. Noi siamo sempre così vani, così sicuri di resistere a quelle passioni, che volentieri ce ne facciamo beffa; volentieri fingiamo di averle, appunto per parodiarle, e compiacerci della nostra virtù. Ma ecco che, così facendo, intanto ce ne occupiamo, le esperimentiamo in noi stessi, gustiamo la loro particolare dolcezza, lentamente e insensibilmente ci abituiamo, infine ne siamo schiavi».
Spunta qui il moralismo cattolico di Soldati, reminiscenza dell’educazione impartitagli dai gesuiti. Eppure - miracolo dei grandi scrittori - quella che potrebbe sembrare una trappola per l’efficacia narrativa si risolve ad essere il suo volano. I personaggi di Soldati sono tutti colti nell’attimo, decisivo, che sta tra il rimpianto e il rimorso, gli unici due sentimenti che possa produrre la decisione di commettere o no un peccato. Non resta loro altro da fare che andare incontro al proprio destino, forse neppure troppo consapevoli che, comunque, «nessuno è sempre piccolo, tutti in qualche momento sono grandi.

Ma questa grandezza ondeggia, serpeggia, svaria: imprevedibile il suo cammino, imperscrutabili le sue frequenze e le sue assenze, con una grazia misteriosa che piova su nessuno e su tutti, non si sa mai quando e quanta».
(1. Continua)

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