Sopravvivere da Nairobi a Quarto Oggiaro

Saggi, romanzi, racconti: tante «storie di confine» che aiutano a comprendere le ragioni dell’emarginazione e l’estetica del limite

Nei luoghi di confine accade sempre qualcosa. Per il solo fatto di esistere, i territori che si trovano nei dintorni di una linea di demarcazione sono segnati da una storia trasversale che in qualche modo li fa, prima o poi, assomigliare. Le periferie sono spesso luoghi di confine tra il bello e il brutto, tra l’assorbito e il rigettato, tra integrazione ed esclusione. Sono luoghi quanto mai attuali, dunque, perché vivono quella contraddizione che è ormai di tutti: stare dentro o fuori, appartenere o isolarsi, scorrere insieme al mainstream o darsela a gambe, andare a vivere in campagna, essere diversi. La periferia è una terza via: né di qua, né di là, ma sulla pelle, sulla superficie della bolla.
Luoghi ad alto voltaggio, crateri infuocati che sputano creatività e disperazione, energia e disagio, nuovi linguaggi e nuove metamorfosi criminali. Luoghi destinati perciò a farsi largo nella letteratura contemporanea. I saggi per comprendere il fenomeno si moltiplicano. Tra gli ultimi arrivati in libreria quello della giornalista Valentina Agostinis, Periferie dell’anima. Storie e Voci tra rock, rap e Islam a Marsiglia, Londra e Milano (Net Saggiatore, pagg. 202 euro 11), che dà voce, tra estremismo, religiosità, musica e malessere, alle nuove generazioni meticce insediate nelle periferie europee, gli angloasiatici di Londra e Birmingham, i franco-maghrebini di Lione e Marsiglia, i giovani immigrati nordafricani di Milano. E ancora la dettagliata analisi sociale delle sommosse francesi dello scorso anno di La rivolta delle periferie (a cura dei sociologi Hugues Lagrange e Marco Oberti, Bruno Mondadori, pagg. 261, euro 13,50) che confronta il caso francese con la situazione italiana, cerca possibili vie d’uscita in forme di solidarietà trasversali e prova a difendere la città come spazio di integrazione e di mixité sociale.
Soprattutto in Francia, tuttavia, la banlieue è diventata anche fucina di talenti emergenti. Come l’algerina Faiza Guene, che con il suo Kif Kif domani (Mondadori, pagg. 124, euro 8,40) storia di un’adolescente marocchina della periferia parigina, ha venduto dallo scorso anno 200mila copie e oggi - all’uscita del suo Du rêve pour les oufs (Hachette, pagg. 212, euro 16) - è stata invitata, lei ventunenne, a tenere negli Stati Uniti un ciclo di conferenze sul linguaggio giovanile contemporaneo delle periferie, un gergo fatto di un melange di gitano, arabo e argot parigino degli anni Venti, inventato per non farsi capire dalle autorità, poliziotti, genitori e adulti in generale.
Il fenomeno banlieue ha i suoi cantori anche in Italia, dove le periferie non sono mai state semplicemente indicatori del livello di guardia della marginalità o svelamento di culture alternative come quelle dei centri sociali, ma anche luoghi dell’anima, «un’anima che, nonostante la durezza del cemento e l’asperità delle rovine postindustriali, si mostra timidamente nei volti degli abitanti, nell’attaccamento degli anziani a un brandello di verde», come scrive Stefania Scateni nella prefazione a Periferie (Laterza, pagg. 118, euro 9), raccolta di sei taccuini di viaggio nelle periferie di Milano, Napoli, Bologna, Roma, Torino e Bari firmati rispettivamente da Gianni Biondillo, Giuseppe Montesano, Emidio Clementi, Beppe Sebaste, Silvio Bernelli e Nicola Lagioia e illustrati da altrettanti fotografi.
Quarto Oggiaro, Molino Dorino, il polo fieristico di Rho appena fatto da Fuksas, Rozzano, San Donato: Milano appare a Biondillo come una città immensa, i cui comuni, una volta «limitrofi», oggi sono «ossificati fra loro senza soluzione di continuità» in un’enorme periferia, ultimo anello della serie di «cerchie» concentriche di cui è fatta la città, unico anello infilzato da grandi assi viari di penetrazione da e verso il centro. La Napoli periferica di Montesano si chiama Aversa, Caivano, Succivo, Orta, Afragola, Casoria: osceno errore estetico «destinato già in partenza ai meteci, ai fuoricasta, al minus habens dell’Occidente universale». Bologna di confine è più di tutto la Barca, dopo la quale la città finisce e non c’è più niente, solo il fiume, dove cent’anni fa l’aristocrazia trascorreva le estati e che dagli anni Sessanta è quartiere di immigrati, che per Emidio Clementi evoca subito «lo spettro sinistro del morto di fame».
La periferia di Roma è per Beppe Sebaste Tor Fiscale, che ha «l’aria felice di un borgo, le cui casette somigliano a quelle dei quartieri valorizzati dalle agenzie immobiliari». Un borgo dove l’unico bar, che è lì almeno dal 1953, ha ancora l’insegna gialla e tonda del telefono di una volta. Un borgo dove oggi incendiano le auto e abitano i rumeni, ma una volta Pasolini ci andava a far le foto agli «abitanti dell’acquedotto». E poi la Torino del Lingotto e della Valletta, la Torino in cui la periferia, più che al confine è «quasi al centro» e comunque sempre dalla parte opposta alle colline, un luogo in cui Silvio Bernelli incontra macchine sfasciate, venditori ambulanti, brutti graffiti e inutili telecamere di videosorveglianza. E la Bari di Lagioia, che fa un bilancio degli ultimi dieci anni di vita della città, trova le sue periferie del ricordo a Japigia, dove dieci anni fa i motorini bruciavano le curve e l’eroina era in caduta libera e oggi c’è un quartiere normale, dove forse gli spacciatori stanno nascosti in superattici comunque raggiungibili.
Esteta delle periferie dell’anima è Tommaso Labranca, che nel suo ultimo libro Il piccolo isolazionista. Prolegomeni a una metafisica della periferia (Castelvecchi, pagg. 254, euro 13) traccia il profilo di un equilibrista del confine, il Piccolo Isolazionista, appunto, che negli autogrill dell’hinterland, separato dalla città interna dal giro asfaltato delle tangenziali, si sente come se fosse sospeso «sull’anello più esterno di Saturno, da dove vedrei il cosmo e, se girassi su me stesso di 180 gradi, vedrei il pianeta». Il Piccolo Isolazionista osserva la città dall’esterno e si accorge che è cambiata lei, che è cambiato lui: il recente passato è sempre più dominato da luoghi periferici, madeleine fatte di «plastica, nafta, coloranti, conservanti e raggi catodici», mentre il presente scorre in non-luoghi d’attesa, aeroporti, autogrill, stazioni, per passare dal centro alla periferia e viceversa.
Isolati e straniati, continuamente dislocati e, dentro, quella sensazione che si rimarrà abusivi per sempre. È la sensazione degli squatter che Robert Neuwirth ha cercato di descrivere nel bellissimo saggio Shadow Cities (Routledge, in uscita a gennaio in Italia per Fusi Orari), che narra delle periferie di Rio de Janeiro, Nairobi, Mumbai, Istanbul, New York.

Un miliardo più o meno gli «abusivi» oggi nel mondo, ricorda Neuwirth, duecentomila ogni giorno le persone che lasciano le zone rurali per trasferirsi nelle città o, meglio, nelle periferie. Un fiume senza controllo, eterogeneo, in gran parte sommerso. Un fiume destinato a raddoppiare entro il 2030, a garantire che nei luoghi di confine accadrà sempre qualcosa. Purché non si riducano a luoghi di confino.

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