Non conosceva Il processo di Kafka, ma se lo avesse letto non si sarebbe sorpreso. Tuttal più, il libro gli avrebbe confermato la veridicità di quelladagio che vuole che la realtà superi spesso limmaginazione. Perché la vicenda giudiziaria di Antonino Spanò, ora rievocata da un libro di Giuseppe Messina, Il caso Spanò (Armando Siciliano Editore, pagg. 257, euro 18), può essere certamente inserita nei casi più clamorosi di malagiustizia italiana, e sconfinare nella paradossalità fino a confondersi con le atmosfere cupe e labirintiche del genio di Praga.
È il 4 ottobre del 1945: a San Pietro Patti, un paesino dei Nebrodi, sono da poco passate le otto di sera. Dopo una giornata di lavoro nei campi, Antonino Spanò è rientrato nella sua casa, una modesta abitazione a due piani, insieme alla moglie Angela e ai quattro figli. Quella sera, in una contrada piuttosto lontana dal borgo siciliano, un anziano avvocato benestante, Francesco Baratta, viene assassinato con un colpo di moschetto che gli perfora arteria, polmone e cuore. A ucciderlo è un uomo dal volto coperto, insieme a due complici. Prima di recarsi dallavvocato, i tre svegliano Sebastiano Martelli, che da tempo lavora come colono per lo stesso Baratta, costringendolo ad accompagnarli alla casa padronale. Rassicurato dalla voce dellagricoltore, lavvocato apre la porta. I malviventi lo aggrediscono chiedendogli dei soldi, ma la vittima sembra riconoscerli e tenta di reagire: durante la colluttazione cade in terra ed è ucciso.
Dopo i primi interrogatori, che si riveleranno contraddittori e piuttosto irrituali, Martelli fa il nome di Antonino Spanò, campiere di Baratta fino al 1940, quando viene licenziato perché accusato di lucrare su un estimo di nocciole. Segue un rapido processo, che si conclude il 21 maggio del 1947: la Corte dAssise condanna il contadino «alla pena dellergastolo, allinterdizione perpetua dei pubblici uffici, alla perdita della patria potestà, dellautorità maritale e della capacità di testare, alle spese processuali».
Dalla lettura degli atti, il movente dellassassinio appare sin da subito debole: oltre al licenziamento, a scatenare la rabbia omicida del campiere sarebbe stata una compravendita con la vittima di unasina, risolta comunque con il pagamento di ottomila lire allo stesso Spanò. La sentenza è ancora più discutibile per la mancata identificazione dei complici, tanto più che lalibi del condannato è di ferro: unora e mezza prima dellomicidio è stato visto in contrada Sambuca, a diversi chilometri di distanza dal luogo del delitto. Per confutare le testimonianze, ritenute attendibili, ai giudici è sufficiente una perizia, incomprensibilmente affidata a Vincenzo Martelli, figlio del colono che aveva preso il posto di Spanò, e fidanzato ripudiato di una delle sue figlie. Nonostante il temporale di quella sera - è questa lopinione del teste - il tragitto potrebbe essere stato percorso in meno di unora e mezzo. Per il campiere siciliano inizia così unodissea nelle carceri di massima sicurezza di mezza Italia che durerà quasi un quarto di secolo.
Dopo diciotto anni di silenzio, è proprio lautore del libro, Giuseppe Messina, a rioccuparsi della vicenda, compulsando le carte processuali e pubblicando una serie di articoli su La Tribuna del Mezzogiorno. Linchiesta ottiene leffetto sperato: il 12 luglio 1965 lavvocato Trifilò presenta alla Corte dAssise dAppello unistanza per riaprire il caso «sulla base di nuovi elementi». Devono passare sette mesi e dieci giorni perché i giudici li ritengano «validi e sufficienti» per laccoglimento della richiesta di revisione del processo, su cui spetta comunque alla Cassazione pronunciarsi. Il 7 maggio del 1966 la Suprema Corte concede la libertà provvisoria al vecchio campiere. Dopo quasi ventanni di reclusione, Spanò ritorna a San Pietro Patti. Ma lincubo non è finito: nel 1969 inizia il nuovo processo. A difenderlo, insieme a Trifilò, cè Giovanni Leone, che ne ha richiesto il patrocinio gratuitamente. Nella sua requisitoria, è lo stesso procuratore generale a soffermarsi sullassurdità del movente del delitto, e così larringa del parlamentare si può tradurre in una prova di retorica sulla malagiustizia italiana.
È una calda giornata del giugno del 1969 quando la Corte dAssise dAppello assolve Spanò «per non avere commesso il fatto». Dopo 23 anni, 8 mesi e 21 giorni, buona parte dei quali trascorsi nel carcere dellElba, il colono ottiene una riabilitazione integrale.
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