Lo specchio, la donna e l’arte: il sottile fascino del «doppio»

Chi è la fascinosa Donna dipinta da Tiziano verso il 1515, che si sta osservando in due specchi, sostenuti da un giovane uomo? La cortigiana amata da Alfonso d’Este o la futura moglie di Tiziano? Non lo sappiamo. Certo invece è che il pittore la immortala nelle vesti della Maddalena, la santa peccatrice e pentita: le spalle nude e sensuali, nessun gioiello, la treccia sciolta, il vasetto d’unguento, con cui lenirà il corpo di Cristo bagnato dalle sue lacrime.
Ma c’è un motivo intrigante nel dipinto: lo specchio, anzi i due specchi, simboli entrambi di vanitas, cioè della coscienza della brevità della vita e precarietà della bellezza, tipici dell’iconografia della Maddalena.
Georges de La Tour, di fronte alla sua Maddalena penitente del 1638-1643, oggi al Metropolitan Museum di New York, sistema un grande specchio illuminato da una candela che si consuma. Artemisia Gentileschi si autoritrae, nel 1617-1620, nella Conversione della Maddalena di Palazzo Pitti, nell’atto di allontanare da sé lo specchio, che la riflette di profilo accanto ad un teschio. Una scritta sul bordo ricorda: «Optimam partem elegit» («Scelse la parte migliore»), scelse cioè la virtù.
Lo specchio come attributo della vanitas è costante nelle Veneri e Sante del Cinque e Seicento, e nelle nature morte nordiche, nelle quali riflette strumenti musicali, clessidra, teschio e libri. Esempi? La Vanità con natura morta del Maestro di Leida del 1635 circa, della Kunsthalle di Amburgo, la Natura morta con strumenti musicali di Pieter Claesz, del Louvre, in cui lo specchio è il muto testimone della distruzione finale di tutto ciò che è vano. Lo specchio ha avuto una miriade di significati, ruoli e rappresentazioni dall’antichità a oggi. All’inizio è lui stesso il protagonista.
Simbolo del sole e quindi sacro, è realizzato in bronzo, oro, argento da egizi, greci, etruschi, con diverse fogge e curiose decorazioni, come dimostrano gli esemplari superstiti. I romani inventano lo specchio di vetro, ricoprendo il retro con una foglia di metallo. Affreschi egizi, sarcofagi etruschi, pitture romane e pompeiane mostrano figure femminili e matrone con lo specchio.
Nel Medioevo lo specchio è già malfamato, simbolo di lussuria e superbia. Nell’arazzo con l’Apocalisse del Castello di Rangers in Francia, la città di Babilonia è personificata da una prostituta al servizio di Satana, che si pettina davanti ad uno specchio. Nel Castello di Masnago (Varese) la Castità incoronata è rappresentata tra la Lussuria e la Vanità, che si ammira allo specchio. Ma un secolo dopo, intorno al 1470, Antonio e Piero Pollaiolo dipingono per il Tribunale della Mercanzia di Firenze La Prudenza, una delle sei tavole con le Virtù (la settima la farà Botticelli) e la raffigurano con un bello specchio, che la riflette: secondo la Bibbia e il Vangelo di Matteo la Prudenza permette all’intelletto di discernere il bene, come uno specchio.
Lo specchio diventa così strumento di conoscenza, del visibile e dell’invisibile. Nel famoso dipinto di Jan van Eyck con I coniugi Arnolfini, che si tendono una mano nella loro camera da letto a Bruges, uno specchio posto sulla parete di fondo permette di vedere due personaggi che guardano la scena dal di fuori. Tra loro, c’è il pittore stesso, che annota sopra lo specchio: «Johannes de Eyck fuit 1434» («Giovanni van Eyck fu qui 1434»). Lo stesso stratagemma usa ne Las Meninas (La famiglia di Filippo IV) Velázquez che, attraverso uno specchio dipinto nel quadro, dilata lo spazio e rivela la presenza esterna e silenziosa della regina Maria Anna d’Austria e di Filippo IV. Giocando su queste possibilità di rivelare l’invisibile e quindi l’inconscio, lo specchio diventa strumento delle avanguardie novecentesche, adeguandosi a stili e linguaggi diversi. Il pittore stesso si guarderà allo specchio, creandosi diverse identità, tra una deformazione e l’altra.
Ma soprattutto lo specchio è oggetto di seduzione, come raccontano le belle donne dipinte dal Rinascimento all’Ottocento, vestite o nude, spesso accompagnate da sottintesi moralistici. La Donna allo specchio di Giovanni Bellini usa due specchi per sistemarsi la elaborata acconciatura, mentre la giunonica Venere di Rubens, cento anni dopo, offre allo sguardo i suoi abbondanti glutei, relegando allo specchio il viso.

Velázquez nella Venere del 1648-1650, unico suo nudo superstite, svela non solo la bellezza di quel corpo candido, che si guarda il viso allo specchio, sostenuto da un putto alato (Cupido), ma racconta uno spaccato autobiografico con l’immagine dell’amante romana e del figlio che da lei attendeva.
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