Con Giorgio Bàrberi Squarotti si chiude un'altra porta del nostro Novecento. È morto a 87 anni, era nato nel 1929 e aveva occupato la cattedra di Letteratura italiana all'Università di Torino dal 1967 al '99, prendendo il posto del suo maestro, Giovanni Getto, col quale si era laureato con una tesi su Giordano Bruno. Fu critico letterario instancabile, firmando monografie dedicate a D'Annunzio (Invito alla lettura di Gabriele D'Annunzio), Pascoli (La simbologia di Giovanni Pascoli) e occupandosi poi di Boccaccio, Ariosto, Tasso, Manzoni, ma anche scrivendo capillarmente sulla poesia italiana del Novecento, con quella generosità intellettuale che posseggono le persone col pregio della curiosità, non lasciandosi sedurre né da metodi prestabiliti né da ideologie. Era invece concentrato sui testi, in specie sullo stile dell'autore che analizzava, convinto fosse lì il segreto di ogni opera.
Alla notizia della sua morte, ho sfilato dalla libreria alcuni suoi libri, ne aveva firmati moltissimi. Ho riaperto il volume Utet delle opere di Dante che aveva curato nel 1983. Sua era l'introduzione alla Vita nova. In quelle cinquanta pagine possiamo leggere, a posteriori, il destino a cui aveva affidato non soltanto la propria capacità ermeneutica, ma la ragione di una spiritualità che aveva sempre sentito vivissima e che era stata il tratto distintivo di ogni suo lavoro. Sembra una pura necessità accademica, eppure introdurre proprio quella e non altre, delle opere di Dante, aveva un significato specifico, anzi due. Da una parte un problema di carattere formale la biografia che diviene il mezzo per un ragionamento critico e di poetica , dall'altra il fatto che la nascita della letteratura, dico la necessità dello scrivere, dipendeva per Bàrberi Squarotti da una trasformazione (tutta spirituale) da una vita che cambia per mezzo di una visione.
Di questa tensione spirituale è intrisa anche la sua opera in versi. Rileggo una poesia, Resurrezione, tratta dalla raccolta Le vane nevi, pubblicata nel 2002, che così si chiude: «Il sole s'alza da estremi/ sogni di nuvole o nebbie, nel giorno/ che proclama trionfante l'anelito/ di nuova vita, dopo i tempi oscuri/ e confusi di lunghissime piogge/ e silenzio».
Quella «nuova vita» non è una speranza dopo «i tempi oscuri e confusi», ma una tensione radicata all'esperienza umana, imprescindibile da un legame con la natura, o più propriamente con la propria terra, come se la «nuova vita» fosse a ben vedere un ritorno all'origine.
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