Borgna indaga il rapporto segreto tra poesia e follia (che è anche in noi)

Il luminare della psichiatria esamina il lato più sensibile della nostra mente

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Davide Brullo

Un paio di frasi ci servono come passepartout per «schiavare» l'enigma del libro. La prima è di Giorgio Colli, il filosofo dell'oltranza, morto quarant'anni fa. «La follia è la matrice della sapienza», scrive, in quel gioiello cardinale che è La nascita della filosofia. L'altro è Arthur Rimbaud, che nella micidiale Lettera del Veggente, spedita da Charleville all'amico Paul Demeny nel 1871, ribadisce che il poeta non è un poeta, uno che fa gargarismi linguistici rimati, ma un uomo totale per cui «enormità diventa norma». Non esiste norma, per il veggente, ma solo enormità, anormalità, animalità grammaticale, biologia verbale.

Sapienza e poesia, in quanto misura dell'oltre, sfida all'Altro, vertigine nella vergogna umana, sono legate strettamente al netto delle esigenze di marketing e dei reflui romantici alla follia. Su questo tema, cioè su La follia che è anche in noi (Einaudi 2019, pagg. 130, euro 12), ragiona non un mistico o un heideggeriano in estro, ma Eugenio Borgna, luminare della psichiatria, in un libro nitido, intriso di nostalgie. Pioniere della psichiatria gentile (ergo: «La psichiatria è una disciplina impossibile, una disciplina che tradisce la sua ragione d'essere umana, se non ci sono in noi mete ideali: come la gentilezza e la sensibilità, la intuizione e la grazia, la fantasia e la immaginazione, la solidarietà e la speranza»), Borgna, in decisi acuti autobiografici, non nega la tenebra, cioè la difficoltà a dialogare con il male. Racconta i momenti passati al manicomio di Milano, dove il crisma era quello di normalizzare il diverso, di eliminare l'alieno («Cosa era mai la follia, agli occhi degli psichiatri che lavoravano in questo manicomio, se non anarchia e insensatezza, malessere biologico e isolamento, impenetrabili a ogni sollecitazione ambientale, con la conseguente inutilità di ogni dialogo, e di ogni relazione?»), poi gli anni, densi di bella malinconia, a Novara, «uno strano e forse unico manicomio, almeno in Italia, nel quale... si era venuta formando una comunità di cura». Della rivoluzione operata «sulla scia delle straordinarie esperienze di Franco Basaglia», Borgna esalta le luci ma non nega le ombre.

Come sempre, però, è l'uso che Borgna fa dei materiali letterari che sia Nietzsche o Thomas Mann, che siano le poesie «dolorose e strazianti e nondimeno umanissime» di Georg Trakl o le agnizioni di Cristina Campo, le cui «magiche parole... sono utili alla psichiatria, ne rivelano la dimensione intuitiva, interiore, che rende ogni incontro, ogni colloquio, una sfida alla ragione» a sbalordire. La lingua letteraria, specie nella sua quintessenza, la poesia, è verbo corrosivo, che fa scorrere rasoi sul vocabolario e sulla palude vetrificata del comunicare: il gergo poetico sfocia, per natura, nel grido muto, nella mania, nella smania, nel mantra. «La psichiatria, in ogni caso, non può fare a meno della poesia che l'aiuta a riconoscere la fragilità e l'umanità della follia», ammette Borgna, nelle pagine iniziali. Ricalcando, nel libro, alcune poesie di una paziente, Margherita, dal talento arreso, arrotato al dolore. Poesia non come cura ma come espressione del celato, del nascosto. «La grande poesia, e i grandi romanzi, consentono alla psichiatria di dilatare e di ampliare la conoscenza dell'anima che ne è l'orizzonte infinito. In Hölderlin, in Gérard de Nerval, o in Sylvia Plath e in Robert Walser, la follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione creativa: talora, come diceva Karl Jaspers, incomparabile nella sua dolorosa bellezza». Così ciò che è ulcerato risorge nel suo abbacinante splendore la luce, d'altronde, non si fa guardare, scassa l'iride.

«Esiste solo la poesia»: con questa formula Norman O. Brown conclude un lavoro di epocale grandezza, Corpo d'amore. La poesia non cambia il mondo, rivoluziona l'uomo, convertendo la follia nell'angelo che non perdona ma salva.

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