Busi, la disperazione della letteratura (vera)

Nel nuovo libro si mette a nudo senza autocensura e senza pietà. Non teme nulla, nemmeno di apparire patetico e anacronistico

Busi, la disperazione della letteratura (vera)

Oddio, un altro libro di Aldo Busi, che scrive nulla di buono da trent'anni. Sarà forse con queste parole che il nuovo romanzo dello scrittore bresciano è stato preso e buttato in un angolo della scrivania dalla maggior parte dei critici, in attesa di far pulizia. La rassegna stampa fa impressione per la sua esiguità e inutilità: si consulta in cinque minuti e Aldo Busi non è certo uno sconosciuto. Peccato per i critici, che perdono l'occasione di segnalare (non si pretende che studino, è faticoso e non sono abituati) ai lettori un caso letterario. Dove le stranezze sono due: che il caso sia autentico e che si possa parlare in effetti di letteratura. Detto schiettamente: a memoria non si ricorda un caso, appunto, in cui uno scrittore si sventri davanti ai suoi lettori, senza pietà per se stesso e senza alcun filtro che non sia la lingua. Qui accade. L'altra mammella delle vacche amiche. Un'autobiografia non autorizzata (Marsilio, pagg. 468, euro 18) è un libro disperato, anche se spesso fa ridere, disperato sul serio, non per posa para-esistenzialista e paracula. Non c'è l'insopportabile retorica del dolore: anzi, viene riconosciuta, smascherata e ridicolizzata. Non importa se chi ci sta parlando, attraverso le pagine, sia il vero Aldo Busi oppure un personaggio chiamato Aldo Busi. Non fa alcuna differenza e neppure interessa. Non importa perché il gorgo descritto da Busi prima o poi inghiotte tutti. Ecco, questo libro è uno spaventoso gorgo: in cui finiscono la trama, un monologo che incorpora fantasmi di storie; la lingua, un caleidoscopio in cui si riconosce un'inflessione padana nobilitata dalla frequentazione dei grandi autori; l'anima di Aldo Busi, massacrata dalla solitudine; l'Italia intera, massacrata dalla mancanza di un'anima civile; il lettore, che viene messo davanti a uno specchio. Ah, non fossimo tutti disperati e soli e pieni di odio e tenerezza frustrata come Aldo Busi. Ma lo siamo.Qui l'intrattenimento c'entra come i famosi cavoli a merenda o il capitone marinato alle due del mattino, per stare ai pranzetti notturni descritti da Busi. Siamo di fronte a un mattone di quasi cinquecento pagine, all'apparenza privo di capo e di coda. L'apertura dà il senso del libro. Si direbbe sufficientemente dura. Ma c'è spazio e tempo per rigirare il coltello nella piaga e farla sanguinare. Una volta c'erano gli altri, dice a se stesso Busi. Se è per questo, si risponde, una volta c'era anche la realtà.

Oggi invece resta un monologare matto e disperatissimo. Sul sesso: «E se avessimo mancato la vita solo perché abbiamo dato troppa importanza al sesso come arma di riscatto dalla solitudine e preteso dal sesso quella soddisfazione del viscerame sentimentalistico chiamato cuore e quella tacitazione della mente civile». Sull'amicizia: «Gli unici amici veri, riusciti alla perfezione, sono i conoscenti che conosci pressappoco e che saluti ogni giorno a decine senza sapere come fanno di nome e cosa fanno nella vita, che se ne stanno per conto loro e comunque a distanza di sicurezza, che non ti fanno alcun male e, anzi, che un bel giorno in mezzo secolo di Ciao e basta ti chiamano a voce alta da dietro e ti dicono, Te, guarda che ti è caduto un guanto dalla tasca, altrimenti sono quelli mancati o a metà o falsi o che si ebbero nell'infanzia e di cui conserviamo un ricordo positivo a patto di averne perso le tracce». Sugli incontri, a esempio quello già celebre con Eugenio Montale: «Ancora non mi do pace di non aver finto una storta per lasciarlo cadere a faccia in giù sugli eleganti asfalti di via Monte Napoleone e di San Babila». Sulla scrittura: «Nessuna civiltà è mai nata dall'immagine e una civiltà costruita sull'immagine che soppianta la parola scritta o è una civiltà interrotta o una estinta, staremo a vedere». E poi ancora ci sono il paese (Montichiari) e il Paese, i Discorsi civili e i discorsi famigliari, le (vacche) amiche, la corrispondenza con le lettrici, i panettoni dei lettori, la satira feroce del mondo dei festival culturali (dove culturali si fa quasi sempre per dire). E ancora tantissimo altro: la religione come falsa speranza, i social network come falsa comunicazione, la chirurgia plastica come falsa soluzione, l'utero in affitto come falsa soddisfazione, la giustizia dei tribunali come falsa giustizia, la politica come vera falsità. E non dimentichiamo il lago di Garda, Davos, le trattorie alla buona della Bassa, e via all'infinito, in un non-romanzo «che si legge come un romanzo».La parola ricrea la realtà perduta, ma quanto appare fragile e confusa queste reinvenzione. Busi (o il personaggio chiamato Aldo Busi) non teme nulla: di essere anacronistico, di annoiare, di apparire patetico, «vecchio, cascante, grasso, fisicamente un cesso». E ha ragione perché questa mancanza totale di pudore e di autocontrollo (leggi: autocensura) è la chiave che apre le porte della letteratura. Anacronistico perché eterno, come eterno è il dolore degli uomini. Patetico come si vede chiunque abbia sufficiente senso dell'umorismo e dell'autoironia (autoironia vera, non quella roba compiaciuta alla Woody Allen). Noioso come ormai sembra tutto ciò che è più articolato di un post su Facebook.È un libro riuscito, non è un libro riuscito: se ci fosse un critico ce lo direbbe lui, ma non c'è. Anzi, uno c'è: Daniele Giglioli, che ha incensato il romanzo con un acuto articolo sulla Lettura. Comunque la questione è addirittura secondaria.

Quello che conta è che, per parafrasare il titolo di un altro romanzo di Busi, ci vogliono i coglioni per scrivere un libro del genere, e in Italia non sono rimasti in molti ad averli, per cui quei pochi ce li teniamo belli stretti.

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