di Benny Casadei Lucchi
Rush è un western dei motori. Un film di confine che fissa il romantico spartiacque tra uno sport che c'era e non c'è più. È credibile, drammatico, nostalgico. Parla di due uomini e una presenza: la morte. Fottuta dea che nobilita le corse come i lividi la boxe. Forse per questo Rush mi ha fatto sentire a disagio. Perché vorrei che la F1 fosse ancora quella e i piloti ancora loro. Non più gli Alonsi e i Vettel, ma i James e i Niki dei cazzotti e le scopate arrabbiate e le macchine assassine. F1 di tragedie e resurrezioni, F1 di ragazzi che montavano in auto a percentuali invertite rispetto a oggi: 80% si muore, 20 si torna a casa. La passione di lord Hesketh, l'ambizione di James e Niki. Giovani cresciuti ribellandosi al futuro programmato dalle ricche famiglie e non robottini programmati dai genitori come oggi che li piazzano a 4 anni sui minikart. Se la F1 è un successo lo deve alle pazzie di quell'epoca impresse nel dna dei tifosi. Anche se ora i piloti sono impiegati del rischio e non più cavalieri. Sono giovani per i quali il pericolo è così lontano da renderli banalmente simili a noi. Ha un solo neo Rush: quasi si dimentica di Merzario, il pilota che salvò Niki dal rogo.
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