Corona non riesce a scalare i monti della lingua italiana

"Nel muro" è disseminato di similitudini e metafore che sfiorano l'assurdo. Alla fine viene voglia di città

Corona non riesce a scalare i monti della lingua italiana

Che invidia mi fa, Mauro Corona. Anche come scrittore. A cominciare dalle tematiche, lui ne ha una sola: la montagna. A me avrebbero detto: ma che fai scrivi sempre lo stesso romanzo? A lui no, e gli comprano sempre lo stesso romanzo con le stesse montagne. Ma soprattutto le similitudini e le metafore di Corona, signore mie, che spettacolo!

L'ultimo, appena uscito per Mondadori, si intitola Nel muro, e me lo sono letto tutto d'un fiato, perché mi ero sempre chiesto cosa ci trovassero i numerosi lettori in Mauro Corona, e finalmente ho capito: nella sua elementarità Corona diventa esilarante. Va da sé che si intitola Nel muro ma parla di montagne, di cos'altro sennò.

Insomma, Corona vede una baita e la baita «porta addosso un cappotto misterioso, fatto di boschi e silenzi». Proprio così, un cappotto di boschi. Per chi non l'avesse colta Corona precisa che «il bosco l'aveva ingoiata completamente, le era saltato addosso stuprandola dal tetto e da allora la teneva stretta dentro un cappotto verde». Chi ci penserebbe mai, al bosco che stupra un tetto e diventa un cappotto se non Corona. Qualche volta c'è anche la similitudine delle giacche, tipo questa: «alte nel cielo, alcune nuvole sbrindellate e fosche stavano ferme come giacche appese».

Ma la fervida immaginazione montanara di Corona non ha limiti. Corona pensa alle stagioni e gli vengono in mente le corna delle lumache, cioè: «Al fiato delle stagioni, le cose si ritiravano e rispuntavano come le corna delle lumache al minimo contatto». Che poesia! Che roba! Guarda il bosco e pensa alle api, siccome «le cime degli abeti ronzarono come api in volo». Vedo un corvo e è «ritto, immobile e nero come un tizzone spento», mentre se guarda le stelle, beh, i tizzoni si accendono, in quanto «le stelle, uscite a spiare la valle, ardevano come braci quando ci si soffia sopra».

Sono incredibili i romanzi di Corona, gli unici elementi moderni sono i cappotti, le giacche, e anche gli ombrelli. Lui è sempre in televisione vestito da boscaiolo, ma la televisione non compare mai, neppure un grammofono. Al massimo il corvo, il solito corvo, ha «le ali strette come un ombrello chiuso», mentre se ti metti sotto un albero «è come avere un ombrello sulla testa». Ci arrivano pure gli oranghi, all'idea dell'ombrello, ma se lo scrive Corona ti viene un brivido. Sembrano libri scritti all'età della pietra, e infatti è pieno di pietre, perfino quando respira «l'aria che respiravo stava immobile come una pietra morta». Non si capisce perché una pietra morta, ma sono dettagli. Nel mondo di Corona tutto è vivo, anche i sassi. Che vede perfino negli occhi della mamma, «caduti in fondo alle orbite come sassi in fondo a un pozzo». Qualche volta le similitudini con i sassi sembrano non tornare molto, tipo quando si trova nella neve e dice «mi orientai puntando un blocco di roccia grande quanto un campanile, emergente dalla neve come un comignolo d'inverno». Insomma, o è un campanile o è un comignolo. Ma se non hai la testa di sasso di Corona non puoi capire.

Sebbene la testa di Corona sia sempre in movimento, come scrive lui «la mia testa bolliva come una pentola di fagioli». Nel romanzo per esempio la pentola di fagioli nella testa di Corona ricorda di quando da bambino violentò una bambina, una bambina che aveva le gambe «sottili come una ranocchia», e quando le montò sopra «stava ferma come una rondine sotto un gatto». Ma le similitudini più amate da Corona sono quelle con i cani, originalissime, spettacolari. Guarda la luna e «la luna va avanti e indietro nelle nuvole come un cane che cerca il padrone». Sta a casa «solo come un cane». Ha degli incubi e si sveglia «tremando come un cane bastonato». Trova una cerva e «mi ubbidisce come un cane». Vede un capriolo e «più che un capriolo sembrava un cane rabbioso». Ci sono perfino delle mummie con «un fiore di legno che stringevano tra le gambe come un cane serra l'osso tra i denti». E poi non si finirebbe più, tipo per voi la luce della luna al massimo illumina la stanza, per Corona «era saltata nella baracca come un camoscio oltre l'ostacolo». Chi ci avrebbe mai pensato, alla luce lunare come un camoscio? E l'erba, che «cresceva come spinta da sotto»? Voi vi chiederete perché, l'erba dovrebbe essere spinta da sopra forse? Perché non avete la testa di Corona. E di nuovo l'abete, stavolta bianco, «che dondolava la cima come una mano che saluta»? E di nuovo il corvo, che torna ogni tre pagine, che stava immobile non più come un tizzone spento ma «come fosse stato intagliato sul ramo da un misterioso scultore dileguatosi nel buio»? A chi sarebbe mai venuto in mente? Per fortuna a nessuno. Per questo esiste Corona.

E comunque Corona è uno che per scrivere questi libri fatica moltissimo, e lo dice chiaro e tondo, con una metafora: «trascino i giorni a fatica, come il boscaiolo trascina il tronco».

E dopo aver letto un libro di Corona anche tu ti senti come un boscaiolo che ha trascinato un tronco, un'esperienza bellissima. E subito dopo ti viene un grande voglia di smartphone, di tablet, di centri commerciali, di metterti a parlare con Siri e di giocare alla Playstation, per dimenticare.

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