"Così i terroristi hanno sparato al mio amico Walter Tobagi"

Giampaolo Pansa nel suo nuovo romanzo autobiografico racconta il suo rapporto col giornalista ucciso nel 1980

"Così i terroristi hanno sparato al mio amico Walter Tobagi"

«Tu hai paura?» mi domandò Walter Tobagi, mentre stavamo cenando in un ristorante romano che piaceva a entrambi, Fortunato, al Pantheon.

«Sì, ma non di essere sparato» gli risposi. «Ho più paura che mi sequestrino».

«Perché un sequestro ti spaventa più di un omicidio?» mi chiese ancora Walter.

«Perché non so in che modo mi comporterei, se sarei capace di conservare un minimo di dignità».

Lui replicò: «Nessuno lo sa mai, prima. Soltanto dopo, quando il guaio ti è capitato, scopri che tipo di uomo sei».

Il nostro dialogo, un dialogo folle visto con gli occhi di oggi, ma abbastanza comune quando il terrorismo rosso incombeva sulle vite di tanti italiani, s'interruppe per qualche secondo. Poi toccò a me di interrogare Walter: «E tu hai paura?».

La sua risposta mi arrivò tranquilla: «Sì. Ma avere paura è inutile. Non serve a evitare il pericolo. E soprattutto non ti aiuta a sopravvivere».

Eravamo all'inizio della primavera 1980. Avevo portato a Walter un mio libro sul terrorismo, appena uscito da Laterza. Non potevo sapere che qualcuno stava già esaminando quelle pagine, per decidere se accopparmi o no.

E anche Tobagi non immaginava che, due mesi dopo, proprio quei killer che mi stavano studiando avrebbero assassinato lui. Per questa doppia ignoranza, concludemmo la cena in allegria. Dicendoci che non valeva la pena di alzarci la mattina con l'incubo di essere ammazzati e il risultato di guastarci la giornata.

Tobagi era più a rischio di me per un insieme di circostanze, anch'esse folli se le consideriamo con gli occhi di oggi. Prima di tutto, al «Corriere della Sera» era l'inviato di punta sul terrorismo e ne scriveva senza ambiguità. Poi era il presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, eletto da una maggioranza ritenuta moderata. Infine era un socialista cristiano. Sottolineo: cristiano e non craxiano, come lo bollavano i duri e i puri della nostra corporazione.

Ma forse la causa vera del pericolo che lo sovrastava era ancora un'altra. Walter aveva appena trentatré anni, però si stava avviando per una strada lunga che lo avrebbe portato in alto nel mestiere e, forse, nella politica. I suoi modi erano pacati. L'aspetto e il tratto potevano sembrare da giovane prete. Ti scrutava con occhi davvero buoni: «occhi da cane» si dice in Piemonte, ed è l'elogio di un essere umano dolce. In più, si muoveva con la generosità di chi vuol capire le ragioni degli altri. E ogni volta spinge lo sguardo verso la metà nascosta della luna, per studiare l'umanità più estranea e lontana. Sotto questa buccia, però, esisteva un secondo Tobagi. Un uomo tenace, anche caparbio. Difficile da piegare. Fermissimo nei convincimenti. Intransigente sui valori che ispiravano la sua esistenza e il lavoro nei giornali. E coraggioso, capace di tener testa all'arroganza e alla prepotenza che il mestiere, fatalmente, gli metteva davanti. Eletto presidente dei giornalisti lombardi, Walter aveva scoperto di doversi misurare con più di un avversario. Erano colleghi che lo combattevano per rivalità corporative o per livore politico.(...)

Quando lo uccisero, la mattina del 28 maggio 1980, mi trovavo nella sede della stampa estera a Roma, in via della Mercede. Ero andato lì per sentire la conferenza stampa di Enrico Berlinguer, in vista delle elezioni regionali dell'8 giugno. Mentre il segretario del Pci rispondeva ai giornalisti, venne a cercarmi un'impiegata dell'associazione, una ragazzona nordica. Mi spiegò: «Il tuo signor direttore ti pretende al telefono». Non intendevo perdermi Berlinguer e replicai: «Digli che non mi hai trovato». Qualche istante dopo, lei ritornò: «Corri al telefono, è importante!». Ci andai di malavoglia. Ed Eugenio Scalfari, con una voce irriconoscibile, mi disse: «Hanno ucciso Tobagi». Di quella giornata non rammento più nulla. Tranne che ci misi un'infinità di tempo a scrivere il fondo di Repubblica sull'assassinio di Walter. Di solito sono veloce, ma quel pomeriggio le dita non volevano saperne di battere sulla tastiera della mia Olivetti. E la mente viaggiava per conto suo. Vedevo di fronte a me la moglie di Tobagi, Stella, una bella ragazza bionda, riservata, spesso silenziosa. E il figlio Luca, piccolo. Lo chiamavo «Tobagino», come avevamo soprannominato suo padre all'inizio della professione. Una domenica, Walter era venuto a trovarmi nell'Oltrepò pavese. E «Tobagino» aveva rotto una manopola della cucina a gas. Mi ero sempre ripromesso di farla riparare. E me n'ero sempre scordato. Tentando di scrivere, mi dicevo: adesso quella manopola non la toccherò più. E poi: quanti anni avrà Luca? E sua sorella Benedetta? E Stella come starà affrontando questa tragedia? Picchiavo sull'Olivetti e sentivo la nausea salirmi in gola. Pensavo: adesso vomito.

Poi ringhiavo: vorrei vomitare su chi ha ucciso Walter! Su chi sta godendo della sua morte. Su quelli che hanno paura di scrivere la verità sul terrorismo. O stanno sempre dalla parte delle rivoltelle e mai con chi si becca le rivoltellate.

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