Il dolore del ricordo ci spinge verso il futuro

«La nostalgia ferita» è un percorso fra letteratura e arte. In cui la perdita apre nuovi orizzonti

Il dolore del ricordo ci spinge verso il futuro

Vivere vuoti di passato, di ambizione per il futuro, nell'abbrivio del presente. E morire così, dimentichi e dimenticati, come le foglie. Questa è una porzione dell'utopia orientale: sorridere, privi di desideri, di ripicche, privati di tutto. L'uomo occidentale, invece, sta nel giaciglio della nostalgia, giace nel canto quinto dell'Odissea, sugli scogli di Ogigia, di fianco a Ulisse che «con gemiti e lacrime straziava il suo cuore», implorando, «voglio tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno». In quel desiderio di ritorno - in una casa che è il frutto del ricordo, perciò del fraintendimento - è l'opera della nostalgia. Una nostalgia che irrigidisce sulla soglia della finestra, schiavi di un passato presunto, ma ci impegna al ritorno, mettendo zattere nell'oceano.

«La nostalgia ci consente di ritrovare qualcosa del nostro futuro che si era dimenticato», mi dice Eugenio Borgna, surfando nel paradosso, che a La nostalgia ferita (Einaudi, pagg. 114, euro 12) ha dedicato un libro fragile e necessario. Indifferente o quasi (nel libro si considerano alcuni testi di Andrea Bajani) alla letteratura italiana recente («non trovo nella letteratura italiana fonti di grande consonanza con le mie motivazioni alla lettura: alle donazioni di senso della lettura»), il grande psichiatra s'inabissa nei cunicoli della nostalgia citando Emily Dickinson e Bernanos, Karen Blixen e Giovanni Pascoli, Leopardi, Thomas Mann, Rainer Maria Rilke (I quaderni di Malte Laurdis Brigge, soprattutto, «lo continuo a leggere dagli anni di liceo»), e Marcel Proust, ovviamente, così che il pamphlet è utile anche come prontuario per letture determinanti. «Si ha nostalgia della nostra infanzia e della nostra adolescenza, come diceva Dostoevskij, che alla nostra vita aprivano possibilità infinite che non siamo stati capaci di realizzare», dice Borgna, un uomo definito nella gentilezza, di inattuale generosità.

Della nostalgia, però, seducono, sadicamente, le spine: l'interdizione dal presente, l'intrusione dei morti intorno alle nostre gambe, il desiderio di fare ritorno in luoghi appena abbozzati dall'immaginazione, irreali. In questo schianto della ragione contro le ragioni dell'immaginare, in questa deflagrazione delle cronologie, accade l'arte, che significa sostare in mondi potenziali, non ancora nati, in un tempo alieno (mentre scorre il tempo, dove corre la mente dello scrittore, al tavolo, che pensa al prossimo romanzo, al suono del prossimo verso?). Penso all'esotismo fittizio di Rousseau il Doganiere, a quelle giungle improbabili che sono la reminiscenza di una fanciullezza del tutto mentale. «Si può avere nostalgia di orizzonti di vita, a cui la nostra immaginazione inconsciamente aspirava, e che non sono mai esistiti. Ma non si spegne mai l'attesa che l'impossibile divenga possibile», dice Borgna. Tra la nostalgia che reclude in una foresta di vetro, tramutandosi in rimorso e rancore - c'è chi ha nostalgia di quel gesto che a suo dire ne informa il destino intero - e quella che inaugura una vita più ampia - le cose hanno senso perché sono ciò che sono state - l'arte rompe dighe e finestre, dilaga nel grido.

Psichiatra che adotta la poesia come farmaco, per Borgna la Legge Basaglia, quarant'anni dopo, è la nostalgia di un atto necessario, che non ha ancora dato frutto. «Cambiare e migliorare radicalmente le strutture costitutive del fare psichiatria non basta se, come ancora oggi avviene, si consegna esclusiva importanza ai farmaci, e se nel curare non si è nutriti di ascolto e di attenzione, di apertura al dolore dell'altro e di capacità di decifrare il senso che si nasconde nei modi di essere della malattia psichica», mi scrive. «L'homo faber, l'homo robot, dilaga in noi, e in particolare in non pochi psichiatri prigionieri della tecnica, e allora non bastano strutture aggiornate per realizzare una psichiatria umana e gentile. La psichiatria non può se non essere incentrata sulla relazione, sul colloquio, che si svolga non guardando l'orologio, ma donando a chi sta male tutto il tempo necessario».

Il libro di Borgna parte con uno shock infantile. Armistizio. La Resistenza. La famiglia che si ritira «in un piccolo paese immerso nel verde di una collina dalla quale si poteva scorgere, in lontananza, il Lago d'Orta, e l'Isola di San Giulio, trasognata nella sua grazia mistica». Luogo fuori dal tempo. Gesti arcaici, vita nell'arcano della natura. «Non posso dimenticare i giorni che passavano lenti, e accompagnati dal suono delle campane, quasi azzurre campane trakliane». Qui si svela il procedimento di Borgna. La memoria è infiammata dal corpo poetico: le campane sul lago d'Orta sono in alchemica sintonia con il poeta austriaco Georg Trakl. Se gli chiedo quale sentimento sintetizzi la nostra epoca, però, Borgna non ha dubbi. Non è la nostalgia.

«Questo mi sembra essere il tempo del rimpianto, delle cose che si potevano fare, e non lo sono state». Indugiando nella nostalgia, si spera. Il rimpianto è l'atto di uno che morde lo stesso osso, consumato. E le lacrime sono dure come denti.

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