Alle prime elezioni le "beghine" salvarono la nostra democrazia Gli intellettuali del Pci invece la tradirono

Le votazioni politiche del '48 che videro il trionfo della Democrazia cristiana sancirono che il Paese era spaccato in due. Schiacciati dai conflitti della Guerra fredda, i liberali si trovarono confinati in un ruolo di contorno

Alle prime elezioni le "beghine" salvarono la nostra democrazia Gli intellettuali del Pci invece la tradirono

Il 18 aprile 1948 si svolgono le prime elezioni politiche generali in Italia a suffragio universale. Si vota per la formazione della Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica. Il risultato elettorale sancisce la vittoria schiacciante della Democrazia cristiana (48,5%) sulle sinistre (31%). Inizia l'età del centrismo prolungatosi fino ai primi anni Sessanta. Seguiranno il centrosinistra e, più tardi, negli anni Settanta, il latente compromesso storico fra DC e PCI; infine, nel decennio seguente, il protagonismo del Partito socialista guidato da Bettino Craxi. Il periodo si chiude con Tangentopoli e la fine della cosiddetta prima Repubblica. Il 18 aprile segna dunque una svolta storica fondamentale perché pone, per quasi mezzo secolo, la sostanziale centralità della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale.

Ma da questa data non inizia solo un futuro, ma si chiude anche un passato, precisamente quello segnato dalla caduta del fascismo e dalla ripresa della democrazia liberale entro il trapasso dall'istituto monarchico a quello repubblicano. Il 18 aprile, dunque, è uno spartiacque decisivo perché in questo crinale si svela in modo inequivocabile la verità politica della storia italiana; mostra, cioè, che la maggioranza degli italiani è di orientamento moderato e, allo stesso tempo, rende evidente che la sinistra tale è - e tale rimarrà - una forza minoritaria, specialmente se si orienta verso l'area comunista.

Per dar conto di queste affermazioni bisogna riflettere sui cinque anni che contrassegnano il passaggio dal fascismo alla democrazia: 1943-1948. La prima cosa da dire è questa. La Resistenza, insorgenza sacrosanta, non può essere considerata propriamente un fenomeno popolare perché coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una zona grigia aspettando la fine della guerra. Non sono solo i numeri a dirlo, ma, soprattutto, quello che avvenne dopo il 25 aprile 1945. Fin da subito la coalizione antifascista mostra i segni di questa realtà, la sua precaria unità. Dietro ad essa non c'è un popolo unito e concorde: è diviso politicamente, ideologicamente, culturalmente. Passato il vento del Nord rappresentato dalla brevissima presidenza di Ferruccio Parri, giugno-dicembre 1945, la normalità democratica impone alla guida del governo il democristiano Alcide De Gasperi, ovvero impone chi rappresenta di fatto - anche se non ancora in modo elettoralmente accertato e legittimato - la maggioranza degli italiani.

Il referendum a suffragio universale (votano per la prima volta anche le donne), tenutosi il 2 giugno 1946 per la scelta istituzionale fra repubblica e monarchia, conferma questa constatazione circa la preminenza dell'orientamento moderato. Considerando le responsabilità e le gravi compromissioni della casa regnante con il regime fascista, lo scarto della vittoria repubblicana (54%) a fronte della sconfitta monarchica (46%) è deludente. L'Italia è spaccata in due. Al Sud - che non ha conosciuto la lotta partigiana - la maggioranza della popolazione vota per la monarchia (a Napoli l'80%), al Nord per la repubblica (a Trento l'85%). Nella stessa Napoli scoppiano violente proteste da parte di militanti monarchici, nove di essi rimangono uccisi dalla polizia (un centinaio i feriti), quando si crede che il risultato elettorale sia stato manipolato. A parte le accuse monarchiche per presunti brogli nel conteggio delle schede, è certo che se si tiene conto dei voti nulli (tra schede bianche, annullate e contestate, circa 1 milione 500 mila) il divario tra monarchia e repubblica scende da 2 milioni a 250 mila: dopo tutto quello che era successo! Umberto II (re da meno di un mese), e tutta la sua famiglia, sono costretti all'esilio.

Le contemporanee elezioni, tenutesi sempre il 2 giugno 1946 e sempre a suffragio universale, per l'Assemblea costituente sembrano ancora risentire del clima resistenziale e smentire quanto abbiamo appena asserito, ma non è così. Il voto vede l'affermazione dei tre partiti di massa, i quali raccolgono il consenso di tre quarti dell'elettorato: socialisti 20, 07%; comunisti 19, 09%; democristiani 35,02%. Poco consistente appare un terzo polo laico, liberale e democratico: repubblicani 4,04, azionisti 1,08, liberali 6,08. I socialisti e i comunisti, insieme, sorpassano i democristiani, ma si tratta di una vittoria effimera perché all'interno del partito socialista esiste una frattura tra coloro che, capeggiati da Pietro Nenni, vogliono continuare l'alleanza con i comunisti e coloro che, capeggiati da Giuseppe Saragat, se ne vogliono staccare. Questa frattura si consumerà definitivamente nel gennaio 1947 con la scissione di Palazzo Barberini, che porterà alla costituzione del partito socialista dei lavoratori italiani guidato da Saragat (in seguito partito socialista democratico). Sebbene le elezioni dell'Assemblea costituente abbiano registrato la mancanza di una forte componente liberal-democratica, la Carta costituzionale, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, recepisce per fortuna, almeno nella prima parte, alcuni princìpi fondamentali del liberalismo riguardanti le istituzioni e i diritti politici.

Significativo, dell'esistenza della preminenza dell'orientamento moderato degli italiani, è quanto avviene con l'amnistia promossa nel giugno 1946 da Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia, per molti reati avvenuti negli anni immediatamente precedenti. Il capo comunista sceglie la pacificazione nazionale perché non può fare altrimenti, essendo impossibile epurare la maggioranza della classe politico-amministrativa che era stata fascista ed era, a sua volta, espressione della maggioranza degli italiani che, volenti o nolenti, si erano compromessi con il fascismo. Del resto, fin dal marzo 1944 Togliatti, con la svolta di Salerno, aveva realisticamente riconosciuto l'impossibilità di una rivoluzione socialista, data la presenza militare in Italia degli angloamericani. Con lo stesso spirito pacificatore egli farà poi votare dai deputati del suo partito l'articolo 7 della Costituzione che accoglieva il Concordato fra Stato e Chiesa del 1929 firmato da Mussolini.

Nel corso del 1947 la contrapposizione a livello internazionale fra l'Occidente e il mondo comunista si fa sempre più netta. A Est cala la Cortina di ferro che taglia in due l'Europa, attraverso una linea che va dal Baltico all'Adriatico, da Stettino a Trieste. La Guerra fredda impone una scelta di campo ben precisa, che comporta due antitetiche visioni del mondo, due diversi modi di vivere la società civile, l'economia, la democrazia, la (sacrosanta) libertà degli individui: è uno scontro di civiltà. Si deve scegliere fra comunismo o anticomunismo, non c'è una terza possibilità: o l'Oriente comunista egemonizzato dall'Unione sovietica, o l'Occidente delle democrazie liberali guidato dagli Stati uniti d'America. Tutto ciò non può non ripercuotersi nel nostro Paese. Nel giugno De Gasperi dà vita al suo quarto ministero, senza socialisti e comunisti. Il governo, che alla fine dell'anno sarà formato da democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani, nasce pressoché in coincidenza con la decisione degli Stati uniti d'America di avviare il Piano Marshall, che permetterà all'Italia, come ad altri Paesi europei, una rapida e benefica ricostruzione economica.

All'inizio del 1948 la polarizzazione politica delinea i due campi contrapposti che si fronteggeranno nelle future elezioni. Da una parte la Dc e i suoi alleati, dall'altra il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti. Non c'è spazio per un autonomo polo laico e liberale, né per un rifermento classicamente conservatore; ininfluente risulta, infine, l'estrema destra monarchica e missina.

Anche la Chiesa cattolica contribuisce a questa radicalizzazione intervenendo direttamente nella contesa. Luigi Gedda, su indicazione di papa Pio XII, fonda, nel febbraio dello stesso 1948, i Comitati civici, che in poche settimane raggiungono il numero di ventimila. La loro rapida diffusione su tutto il territorio nazionale avviene grazie al sostegno dell'episcopato e dell'Azione cattolica. Ad essi viene demandato il compito di sensibilizzare politicamente gli elettori e condurre materialmente alle urne anziani e malati, che avrebbero altrimenti disertato il voto. La Dc trova un forte aiuto anche nel gesuita Riccardo Lombardi, il microfono di Dio, le cui predicazioni portano nelle piazze, collegate via radio, milioni di fedeli.

Si fronteggiano dunque, con una mobilitazione ingente, due eserciti: decine di migliaia sono i militanti che ovunque, da entrambe le parti, organizzano comizi, affiggono manifesti, praticano un proselitismo capillare, convincendo casa per casa gli elettori indecisi. Da un lato i 300mila volontari dei Comitati civici legati a 22mila parrocchie, coadiuvati dai 600mila iscritti all'Azione cattolica, dall'altro il PCI, con più di 2 milioni di iscritti e 36mila cellule. Tra i più famosi manifesti elettorali, rammentiamo quello del Fronte Popolare raffigurante Garibaldi che prende a ombrellate De Gasperi e quello della DC che ammonisce l'elettore ricordandogli che nel segreto della cabina elettorale «Dio ti vede e Stalin no».

Si arriva così alla vera e propria resa dei conti del 18 aprile. Si vota un solo giorno, domenica. Quasi 27 milioni di persone si recano a votare, il 92,23% degli aventi diritto (non vi sarà più in Italia un'affluenza così alta alle urne). Il risultato, come abbiamo detto, è noto: la DC vince con un margine di vantaggio che non lascia dubbi sulla volontà degli italiani.

A questo punto non si può non riflettere, polemicamente, sul significato di questa vittoria, dovuta al voto di molta parte dell'elettorato socialmente e culturalmente tradizionale, con un apporto non secondario di tante persone anziane, per lo più donne (definite dalla sinistra sprezzantemente beghine). Si deve dire infatti che l'opinione pubblica progressista e gran parte degli intellettuali dell'epoca votarono, a stragrande maggioranza, per il Fronte Popolare.

Pertanto se fosse stato per loro anche l'Italia avrebbe conosciuto il tragico destino delle democrazie popolari comuniste dell'Est europeo: decenni di miseria e di dittatura.

Come disse Benedetto Croce: «beneditele quelle beghine perché senza il loro voto oggi noi non saremmo liberi».

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