Cultura e Spettacoli

La fine del mondo secondo Xavier Dolan

Quando ci si trova davanti alla presenza ipertrofica di Xavier Dolan e del suo curriculum vitae (27 anni, attore, montatore, regista di 6 lungometraggi, vincitore del Grand Prix all’ultimo Festival de Cannes), si tende ad oscillare tra l’incredulità, l’invidia, lo scetticismo e la definitiva ammirazione. Se poi si entra nella visione delle sue opere allora, se possibile, queste reazioni naturali si estremizzano, lasciando lo spettatore inerme di fronte a una produzione così concentrata e matura. Che Dolan parli di rapporti filiali, di alienazione sociale, di transessualismo, di relazioni logore o di morte, il giovane regista canadese sembra manipolare le proprie creature filmiche con la padronanza di un vissuto che però non gli può appartenere, visto che calpesta questo globo da soli 27 anni. È come se Dolan, quindi, riuscisse a incunearsi e appropriarsi di storie altrui, estetizzandole e rendendole ai legittimi proprietari sotto forma di fiumi emotivi che difficilmente lasciano superstiti. E il suo ultimo film Juste la fin du monde, uscito al Festival de Cannes a maggio ma previsto nelle sale in autunno, non fa eccezione.

Proprio per la vasta oscillazione emozionale che si prova nell’approcciare Dolan e i suoi film è complicato astrarre il proprio pensiero per poter dare delle indicazioni precise riguardo a ciò che Juste la fin du monde riesce a esprimere. Per questo, forse, è meglio cercare di identificare i punti nodali che quest’ultimo lavoro intreccia con i suoi predecessori. Una sorta di compendio, di mappa, di portolano che permetta di orientarsi nell’ipertrofica marea dell’estetica à la Dolan.

Uno, nessuno e centomila Dolan

Ma siamo proprio sicuri che Juste la fin du monde sia stato girato da un solo paio di occhi, un cervello, due gambe e due braccia? Perché a guardare l’alternanza dei colori usati per la fotografia, la variazione continua dei registri di dialogo, la schizofrenia della macchina da presa, i registi, sceneggiatori e montatori coinvolti sembrano compresi in un numero indefinito tra 1 e 100.000. Introdotti da alcune sequenze wesandersoniane (simmetriche+pastello), ritornano i primi piani strettissimi e claustrofobici di Tom à la ferme e i movimenti sincopati degli abbracci come in Mommy, come nel caso della prima scena in cui il figliol prodigo Louis/Gaspard Ulliel viene serrato dalle braccia della sorella Suzanne/Léa Seydoux. Mentre i toni glaciali di Laurence Anyways dominano i due terzi del film, senza preavviso, all’approcciarsi dell’apocalisse, vengono virati su luci che ricordano quelle di una fornace ardente.

Tutte le donne del mondo

Quelli di Dolan non sono mai film da donne, ma di donne. Per quanto i protagonisti ufficiali delle sue opere siano principalmente uomini (quantomeno di nascita), le architravi narrative dell’estetica di Dolan sono femminili: la madre e la professoressa in J’ai tué ma mére, la meravigliosa Frédérique in Laurence Anyways, ancora la madre e la vicina di casa in Mommy. In Juste la fin du monde queste architravi femminee si tripartiscono aggiungendo al duo madre/Nathalie Baye – sorella/Seydoux, una terza variante, la cognata di Louis Catherine/Marion Cotillard. Tre dimensioni del femmineo a cui Dolan affida l’andamento emotivo e ritmico del film che viene dominato dalla disillusa rassegnazione matriarcale della madre, dalla vorace ricerca d’affetto della sorella e dalla pacata consapevolezza della cognata.

Dragostea din tei

Il kitsch. Oltre ogni limite, oltre ogni decenza e, soprattutto, oltre ogni imbarazzo. Che di noi può negare di avere più o meno seriamente canticchiato Wonderwall degli Oasis, ballato I’m blue degli Eiffel 65 o Dragostea din tei? Bene, neanche Dolan può negarlo. Però, mentre noi tendiamo a derubricare questo gusto come una sorte di errore adolescenziale ormai superato, Dolan, al contrario, disvela quelli che erano sì gusti ancora acerbi, ma non meno sinceri di quelli che si raffinano da adulti. E questa profonda onestà, che pervade le scelte di colonne sonore estreme dove Moby e Moderat convivono pacificamente con i sopraccitati, inducono lo spettatore a fidarsi dell’innocente spudoratezza di Dolan. Le repulsioni che la nostre coscienza ci dovrebbe scatenare al contatto con le vergogne dei nostri gusti passati, si tramutano invece in un coinvolgimento che annulla ogni giudizio di valore mescolando in un’unica esperienza emotiva alto e basso, popolare e sofisticato.

Quelli appena elencati non sono altro che tre lumini in mezzo al mare, tre boe di salvataggio che segnalano la loro presenza senza determinare l’ampiezza dei flutti che le circondano. Ce ne sono e ce ne potranno essere mille ancora.

Tuttavia, per quanto potremmo sforzarci di trovarne delle altre, sarà abbastanza difficile riuscire ad evitare che l’ipertrofica marea del cinema di Xavier Dolan non ci travolga ancora una volta.

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