Gli enti lirici italiani e le orchestre sinfoniche sono in grave deficit. Dopo aver evidenziato i motivi della crisi (ieri, Piera Anna Franini), oggi cerchiamo di capire perché ci converrebbe adottare il modello americano
Il Petruzzelli di Bari è appena stato commissariato, la Verdi di Milano ha ottenuto un «regalo» di 3 milioni di euro dal decreto Milleproroghe (con conseguente aumento delle accise sulle sigarette), gli orchestrali della Scala hanno annunciato che riprenderanno - in maniera unilaterale - a svolgere attività esterna (attività attualmente vietata dalla legge). Verrebbe da dire, niente di nuovo sotto il sole. Il panorama italiano è questo. Come se ne esce? Per cominciare si potrebbe partire dalla lettura di The Perilous Life of Symphony Orchestra. Artistic Triumphs and Economic Challenges (Yale University Press 2012) scritto da Robert J.
Flanagan, professore emerito della Stanford Graduate School of Business. Il libro passa ai raggi X il settore delle orchestre sinfoniche statunitensi e, nello stesso tempo, analizza tutti i problemi che a qualsiasi latitudine sono costrette ad affrontare le istituzioni che producono musica «colta». In questo libro c’è tutto quello che bisogna sapere per garantire il buon andamento, in termini gestionali, delle orchestre sinfoniche.
Anche in tale settore Stati Uniti e Europa sono su due mondi separati: se nel paese a stelle e strisce pure la cultura «alta» è in larga parte aliena dal finanziamento pubblico diretto, nel vecchio continente questa è pesantemente sussidiata. Di qua e di là dall’oceano, le orchestre sinfoniche devono però fronteggiare le stesse sfide: la più pressante delle quali è rappresentata dall’incapacità di coprire con la propria attività concertistica i relativi costi (deficit «strutturale»). Per sopravvivere hanno pertanto bisogno di altre fonti di finanziamento.
Negli Stati Uniti, queste sono rappresentate dal mecenatismo privato ( stimolato dagli sgravi fiscali), dall’intervento pubblico e dagli investimenti della propria dotazione patrimoniale (endowment). Nel 1987 le entrate delle principali orchestre sinfoniche americane erano così composte: 48% attività concertistica, 36% supporto privato, 10% supporto pubblico, 6% investimenti. Nel 2005 la situazione era la seguente: 37 % attività concertistica, 45% supporto privato, 5% supporto pubblico, 13% investimenti.
Per capire che stiamo parlando di un altro mondo, basta considerare la media delle dodici istituzioni concertistico-orchestrali italiane finanziate con il Fus: il contributo dei privati rappresenta il 5,8% dei contributi totali percepiti, quello dei soggetti pubblici l’88,5%.
Uno degli aspetti che rende il caso statunitense differente da quello italiano riguarda la diffusa creazione e gestione di una dotazione patrimoniale (endowment). Molti endowment sono donazioni di denaro o di proprietà che garantiscono un supporto finanziario all’istituzione culturale. Gli investimenti solitamente sono diversificati, contemplando investimenti ad alto e basso rischio nel mercato dei capitali nazionale e internazionale.
Tra le argomentazioni avanzate dai sostenitori dell’intervento pubblico diretto, ve ne è una in particolare: le dinamiche di mercato non garantiscono la qualità artistica della proposta musicale. Un gruppo internazionale di critici musicali ha valutato nel 2008 per la rivista Gramophone le performance live e le registrazioni delle orchestre sinfoniche di tutto mondo. Tra le venti migliori per qualità se ne trovano sette statunitensi.
Un risultato niente male.
Il finanziamento pubblico alla cultura che abbiamo in Europa, oltre a non produrre una maggiore qualità, crea una costosa burocrazia devota alla canalizzazione di fondi. Il sistema americano, reggendosi in larga parte su un intervento pubblico indiretto (sgravi fiscali), non deve mantenere tale apparato burocratico, lasciando che siano i contribuenti a decidere quali istituzioni culturali finanziare. La bancarotta delle orchestre sinfoniche è un fenomeno esistente negli Stati Uniti: nell’aprile del 2011 la prestigiosa Philadelphia Orchestra ha presentato istanza di fallimento, si è trattato del primo caso che ha riguardato una tra le maggiori orchestre statunitensi.
In Europa, invece, di questo fenomeno non si sente parlare. Riducendo il rischio di fallimento attraverso i sussidi pubblici, si incoraggiano l’azzardo morale e le inefficienze nella gestione: il management delle orchestre avrà meno incentivi a sviluppare sia le strategie di prezzo dei biglietti che le attività di marketing e fund raising per aumentare introiti e pubblico.
I sussidi pubblici aumentano poi i costi di produzione dei concerti e quelli amministrativi, riducendo inoltre la resistenza del management nel fronteggiare le richieste salariali di musicisti e altri impiegati.Se tutte queste argomentazioni vi sembrano poche, il libro di Flanagan ne avanza tante altre per convincervi: il modello europeo non è più sostenibile.
(2. Fine)
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