Fondi privati e sgravi fiscali gli Usa salvano le orchestre

Da noi sindacati e burocrazia paralizzano le stagioni sinfoniche. E i finanziamenti pubblici sfiorano il 90 per cento. Con esiti disastrosi

Fondi privati e sgravi fiscali gli Usa salvano le orchestre

Gli enti lirici italiani e le or­chestre sinfoniche sono in grave deficit. Dopo aver evi­denziato i motivi della crisi (ieri, Piera Anna Franini), oggi cerchiamo di capire perché ci converrebbe adot­tare il modello americano

Il Petruzzelli di Bari è appena stato commissariato, la Verdi di Milano ha ottenuto un «re­galo» di 3 milioni di euro dal de­creto Milleproroghe (con conse­guente aumento delle accise sul­le sigarette), gli orchestrali della Scala hanno annunciato che ri­prenderanno - in maniera unila­terale - a svolgere attività esterna (attività attualmente vietata dal­la legge). Verrebbe da dire, nien­te di nuovo sotto il sole. Il panora­ma italiano è questo. Come se ne esce? Per comincia­re si potrebbe partire dalla lettura di The Perilous Life of Symphony Orchestra. Artistic Triumphs and Economic Challenges (Yale Uni­versity Press 2012) scritto da Robert J.

Flanagan, professo­re emerito della Stanford Graduate School of Business. Il libro passa ai rag­gi X il settore delle orchestre sinfoniche statunitensi e, nello stesso tempo, analizza tutti i pro­blemi che a qualsia­si latitudine sono costrette ad affron­tare le istituzioni che producono mu­sica «colta». In que­sto libro c’è tutto quello che bisogna sapere per garanti­re il buon andamen­to, in termini gestio­nali, delle orche­stre sinfoniche.

Anche in tale set­tore Stati Uniti e Eu­ropa sono su due mondi separati: se nel paese a stelle e strisce pure la cultu­ra «alta» è in larga parte aliena dal fi­nanziamento pub­blico diretto, nel vecchio continente questa è pesante­mente sussidiata. Di qua e di là dal­l’oceano, le orche­str­e sinfoniche devono però fron­teggiare le stesse sfide: la più pres­sante delle quali è rappresentata dall’incapacità di coprire con la propria attività concertistica i re­lativi costi (deficit «strutturale»). Per sopravvivere hanno pertanto bisogno di altre fonti di finanzia­mento.

Negli Stati Uniti, queste sono rappresentate dal mecenati­smo privato ( stimolato dagli sgra­vi fiscali), dall’intervento pubbli­co e dagli investimenti della pro­pria dotazione patrimoniale (endowment). Nel 1987 le entrate delle principali orchestre sinfoni­c­he americane erano così compo­ste: 48% attività concertistica, 36% supporto privato, 10% sup­porto pubblico, 6% investimenti. Nel 2005 la situazione era la se­guente: 37 % attività concertisti­ca, 45% supporto privato, 5% sup­porto pubblico, 13% investimen­ti.

Per capire che stiamo parlando di un altro mondo, basta conside­rare la media delle dodici istitu­zioni concertistico-orchestrali italiane finanziate con il Fus: il contributo dei privati rappresen­ta il 5,8% dei contributi totali per­cepiti, quello dei soggetti pubbli­ci l’88,5%.

Uno degli aspetti che rende il caso statuniten­se differen­te da quello italiano ri­guarda la dif­fusa creazio­ne e gestione di una dotazione pa­trimoniale (endow­ment). Molti endowment sono donazioni di denaro o di proprie­tà che garantiscono un supporto finanziario all’istituzione cultu­rale. Gli investimenti solitamen­te sono diversificati, contemplan­d­o investimenti ad alto e basso rischio nel mercato dei capitali na­zionale e internazionale.

Tra le argomentazioni avanza­te dai sostenitori dell’intervento pubblico diretto, ve ne è una in particolare: le dinamiche di mer­cato non garantiscono la qualità artistica della proposta musicale. Un gruppo internazionale di criti­ci musicali ha valutato nel 2008 per la rivista Gramophone le per­formance live e le registrazioni delle orchestre sinfoniche di tut­to mondo. Tra le venti migliori per qualità se ne trovano sette sta­tunitensi.

Un risultato niente ma­le.

Il finanziamento pubblico alla cultura che abbiamo in Europa, oltre a non produrre una maggio­re qualità, crea una costosa buro­crazia devota alla canalizzazione di fondi. Il sistema americano, reggendosi in larga parte su un in­tervento pubblico indiretto (sgra­vi fiscali), non deve mantenere ta­le apparato burocratico, lascian­do che siano i contribuenti a deci­dere quali istituzioni culturali fi­nanziare. La bancarotta delle or­chestre sinfoniche è un fenome­no esistente negli Stati Uniti: nell’aprile del 2011 la prestigiosa Philadelphia Orchestra ha presen­tato istanza di falli­mento, si è trattato del primo caso che ha riguardato una tra le maggiori or­chestre statuniten­si.

In Europa, invece, di questo fenomeno non si sente parlare. Riducendo il ri­schio di fallimento attraverso i sussidi pubblici, si incoraggiano l’azzardo morale e le inefficienze nella gestione: il management delle orchestre avrà meno incen­tivi a sviluppare sia le strategie di prezzo dei biglietti che le attività di marketing e fund raising per au­mentare introiti e pubblico.

I sus­sidi pubblici aumentano poi i co­sti di produzione dei concerti e quelli amministrativi, riducendo inoltre la resistenza del manage­ment nel fronteggiare le richieste salariali di musicisti e altri impie­gati.

Se tutte queste argomentazio­ni vi sembrano poche, il libro di Flanagan ne avanza tante altre per convincervi: il modello euro­peo non è più sostenibile.
(2. Fine)

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