Geniale, sexy, rock La mitica Fender compie mezzo secolo

Una mostra racconta l'arrivo in Italia della chitarra che è diventata simbolo del '900. Quello più trasgressivo

Anche nel mondo schizoide del rock esistono oggetti che diventano classici, e l’esempio principe è la chitarra elettrica. Progetto minimale quanto darwinianamente - vincente: due o più pezzi di legno, corpo e manico, magneti, corde. Risultato, l’arma più potente di distrazione - o forse liberazione di massa dell’ultimo mezzo secolo. Il grande innovatore dello strumento fu Leo Fender, il radiotecnico che nel 1950 ebbe l’idea di costruire una chitarra economica e facile da riparare. E la Telecaster fu. Pochi anni dopo (1954) venne l’ancor più famosa Stratocaster. Da allora di Fender ne abbiamo sentite in ogni salsa.

Delicate con Apache degli Shadows (ma anche con il tocco di polpastrello di Mark Knopfler dei Dire Straits), devastanti con Jimi Hendrix. Metal e fantasy con gli Iron Maiden, blues con Eric Clapton, liriche con David Gilmour dei Pink Floyd. Alternative con i Radiohead. Mito, feticcio o oggetto d’uso comune, termine di ri­flessione sulle tentazioni nostalgiche, o sperabilmente sul futuro, ritroviamo la chitarra Fender in una mostra di Luca Beatrice (critico d’arte, curatore del Padiglione Italia a Venezia nel 2009) a Bologna, nelle sale del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, a partire dal 16 novembre, fino al 3 febbraio 2013. Titolo: «Rewind, 50 anni di Fender in Italia».

Il piatto forte della mostra sono una serie di Fender «customizzate » e reinventate da 21 artisti italiani e internazionali: i linguaggi adoperati sono molto diversi, dalla pittura figurativa all’arte concettuale, dall’oggetto all’installazione, dalla street painting alla sound art. La personalizzazone della chitarra e la sua trasformazione in icona visiva è stata l’ossessione di vari musicisti, a cominciare con le Strato «psichedeli­che» di Hendrix, continuando con le folli verniciature di Van Halen, per finire con l'attuale (retro) mania del «relic », che porta gli appassionati a spendere migliaia di euro per invecchiarle artificialmente. Ma in questo caso sono direttamente gli artisti, e non più i musicisti, che int erpretano l’icona. Si va dal basso Fender «a fumetti » di Anthony Ausgang, alla chitarra «cartonata» (con vistosi segni di imballaggio) di Chris Gilmour, dalla Stratocaster trasformata in una sorta di oggetto d’arredamento della coppia Cuoghi e Corsello, alla mise en abyme di Valerio Berruti, che raffigura un ragazzino chitarrista sul corpo di una chitarra.

Ma il Rewind, il riavvolgere il nastro, è anche documentazione. Un allestimento di foto, scene e video rac­conta i grandi della musica italiana che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con la Fender: da Adriano Celentano (che ebbe una Jaguar all’inizio degli anni ’60) ai seguaci di Elvis (Bobby Solo, Little Tony) fino al rock contemporaneo, da Vasco a Ligabue, dai Litfiba agli Afterhours, ma anche il pop rock degli Stadio o di Cesare Cremonini, il progressive italiano (Area), e tutto il capitolo del cantautorato: genovese, milanese, emiliano. Per arrivare all’hip hop. Un sorta di enciclopedia installazione di 50 anni di musica, raccontata in modo tematico, con l’ambizione di scrivere un capitolo di storia sociale del pop italiano. Il 1962 non è solo l’anno dell’uscita di Love me do dei Beatles, è anche l’anno in cui la chitarra rock per eccellenza è sbarcata in italia. Merito di un austriaco, Hans Bauer, che nel 1948 aveva fondato la Casale Bauer, azienda di importazio­ne di violini, corde, articoli per orchestre. «Fu Don Randall, storico manager della Fender, a incontrare mio padre alla fiera di Francoforte», ha raccontato al Giornale la figlia Patrizia, attuale presidente dell’azienda. «Lo convinse a importare da Fender, solo che in Italia nessuno aveva l’esigenza di usare una chitarra elettrica. C’erano le orchestre di musica classica, il liscio, e poco altro.

Del primo stock di chitarre se ne vendettero due: una a Roma e una a Napoli ». Ma proprio da quei due sparuti esemplari è iniziata la storia, musicale e sociale, del pop italiano. Che non è solo nostalgia o retromania, ma, almeno speriamo, ha ancora diverse cose da dire.

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