Il Festival diretto a Padova da Vittorio Sgarbi con la collaborazione di Alba Donati e Lea Codognato, ha un titolo, «Babele a Nord-Est», che mi sembra un invito a rimescolare le carte, a abbattere gli steccati a terra per alzare torri verso il cielo, a evocare quella confusione originaria di espressioni, magmatica e vitale, che è l'unica, io credo, dalla quale può nascere una visione davvero nuova, vitale, liberatrice di energie. «Occorre un caos a chi vuol fare un mondo», scrisse quel genio visionario di Victor Hugo.
Nella mia esperienza di scrittore e di uomo, ho conosciuto bene caos e Babele. Verso la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso scoprivo in solitudine il pensiero e la poesia dei Sufi, mistici dell'Islam, eretici fondatori di un universo abitato dagli archetipi di Bellezza e Amore, viaggiavo tra Marocco, Egitto, Turchia, Iran, e scrivevo i miei Canti di Yusuf Abdel Nur. Avevo preso un nome correttamente islamico (Yusuf Abdel Nur vuol dire in arabo Giuseppe servitore della Luce). Ma non mi ero convertito all'Islam. Continuavo, in un'altra parte di me, a sentire l'influenza di Walt Whitman, D.H. Lawrence, Henry Miller, e a glorificare un eroe così propriamente occidentale e cristiano come Bobby Sands, il ribelle irlandese che aveva iniziato il tragico sciopero della fame del 1981. Eppure c'era del metodo in quella follia babelica: quel fortissimo desiderio di fuga dall'isterilimento materialistico, economicistico, burocratico dell'Europa e quell'altrettanto forte desiderio di conoscenza e di esplorazione di nuove vie spirituali. Avevo eletto mio libro guida il Divano occidentale-orientale di Goethe, e mi ero scelto come maestro, che poi è diventato un amico insostituibile, il massimo poeta arabo vivente, Adonis: un maestro di poesia, di libertà di pensiero, di passione civile.
Da lì i miei Canti d'Oriente e d'Occidente, il libro, del 1997. E da lì la lettura che terrò al Festival. Non un vero e proprio reading. Non conferenza. Niente di dottrinale. Niente di precostituito. Un racconto, piuttosto. E babelico, di sicuro. Come tutto è cominciato, in Francia, in una città portuale della Bretagna, dove un mio amico perennemente ubriaco mi fece scoprire Yunus Emré. Come ho eluso occhiuti controlli per andare da solo a visitare la tomba di Hafis, il poeta nazionale dell'Iran, a Shiraz. Come ho fatto conoscere a Adonis il Brunello di Montalcino e il risotto allo zafferano, come abbiamo parlato di rivoluzionari, capitalisti, donne, violenza islamica. Come alla Fiera del Libro di Casablanca ho alla fine fatto pace con i ragazzi barbuti che si agitavano e mi minacciavano mentre parlavo di libertà femminile come valore assoluto. E tanti altri momenti, compresi quelli nella città che è la porta dell'Oriente, Istanbul, dove molti dei Canti di Yusuf Abdel Nur sono zampillati di notte nella camera di un Hotel Hilton.
Al racconto si inframmezzeranno i testi poetici di Abu Nuwas, Ibn Arabi, Ibn Al Farid, Attar, Rumi, Hafis, ma anche dei più conosciuti Gibran Khalil Gibran e Nazim Hikmet. E si inframmezzerà qualcuno dei miei quarantaquattro canti orientali. Non nasconderò il mio travestimento, né i continui rimandi anche espliciti ad autori della tradizione classica araba e persiana, che svelerò a chi vorrà conoscerli. Leggerò la poesia di Attar sul mito della falena bruciata sul fuoco della candela, e la versione che ne dà Goethe in un testo bellissimo intitolato Selige Sehnsucht, «Beato struggimento». Quella non ho avuto il coraggio, o la spudoratezza, di rifarla io. Ma ho tante brevi poesie orientali che parlano di amore, vino, baci, e anche di un Dio fonte di vita, di clemenza, di misericordia.
Le leggerò nel loro spirito orientale calato nella più poeticamente duttile e ricca tra le lingue d'Occidente, che è l'italiano. Oriente e Occidente convivono così nella poesia, espressione di ciò che vi è di più umano nell'uomo: la sua misteriosa, fragile, oscura nostalgia del cielo e dell'eternità.
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