«I miserabili» di Hugo e la sacralità dell'uomo

In un romanzo i «fatti» sono anche i simboli che ne reggono la struttura

Luca Doninelli

Chi conosce I miserabili sa che, per gran parte del romanzo, Jean Valjean non è affatto il protagonista, anzi: non è nemmeno presente nella storia. La sua vicenda è il fil rouge, la costante, la nota di basso continua dentro una storia corale. Hugo non scrive «Le avventure di Jean Valjean», scrive I miserabili. Chi sono, nel 1830, nel 1850, i «miserabili»? Hugo descrive la società come una sorta di miniera, con cunicoli e corridoi che si spingono sempre più in profondità. E più si scende, più l'uomo sembra perdere i propri connotati individuali per confondersi in una massa dove non è più possibile distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto, l'uomo onesto e il delinquente. C'è un punto, dice Hugo, oltre il quale l'uomo sembra perdere i propri connotati umani, c'è un punto oltre il quale si cominciano a incontrare i mostri.

Marx lo chiamerà sottoproletariato, mentre Hugo si avvale di un vocabolario che mette insieme il socialista, il gotico e il tardoromantico, evoca mostruosità non tanto nell'aspetto esteriore delle persone, quanto nelle patologie (vizio, alcol, ambiguità morale, menzogna cronica) che ne rendono abnorme il comportamento. La famiglia Thénardier ne è l'esempio più limpido: la malvagità dei genitori non impedirà la nascita di due figli meravigliosi, Eponine e Gavroche. Insomma, siamo messi in guardia dalla tentazione di dividere troppo il bene e il male: a questo penserà Dio.

Hugo pensò forse di controllare l'immenso materiale narrativo del suo romanzo mettendosi saldamente al suo centro, ma se cercate in un romanzo l'architettura perfetta, la grande orchestrazione, è meglio che vi rivolgiate ad altri scrittori. Anche Manzoni, alcuni decenni prima, compone un romanzo con tanti materiali diversi, anche lui non esita a parlare in prima persona, ma la sua prima persona è tutta interna allo stile del romanzo, la sua ironia (che Hugo non ha) pervade la storia e le figure come una grazia ad esse interna, non come qualcosa che s'impone da fuori. Insomma, quando si parla del «narratore onnisciente» va ricordato che c'è caso e caso. Chi è abituato a cantare conosce bene la differenza tra una voce educata da ciò che canta e una voce che si impone, si sovrappone alla canzone.

Come un regista navigato, un po' genio e un po' mestierante, Hugo assegna le diverse parti ai suoi personaggi. A Jean Valjean deve assegnare quella principale, perché sa che sarà lui a decretare la riuscita o il fallimento di questa sua immensa, folle opera (Jean Cocteau scrisse che «Victor Hugo era un pazzo che si credeva Victor Hugo»). Ma ha anche lui le sue preferenze, e sono come sempre quelli che più gli scappano di mano. Che sono anche quelli che, in realtà, conosce meglio, perciò li lascia respirare di più, allenta il controllo.

Jean Valjean non ha una filosofia di vita, Jean Valjean è l'altro per eccellenza, l'estraneo, il non-romanzesco, ciò che non si può ridurre ad alcun immaginario gotico o tardoromantico. Quando uno scrittore si imbatte in un personaggio così (come accadde, credo, per Achille nell'Iliade) non potendo possederlo deve dargli una dote, ed è questo che Hugo fa con il suo protagonista. Jean Valjean non ha un pensiero, i suoi sentimenti sono difficili da decifrare, il suo comportamento non segue una linea psicologica riconoscibile, ma ha una dote, e la sua dote è il suo Battesimo. «Sono prigioniero del mio battesimo!» impreca Arthur Rimbaud una quindicina d'anni dopo. Hugo però non imprigiona Jean Valjean in nessun battesimo, perché il battesimo di Jean Valjean è il seme della sua vita unica, libera, non replicabile, che lo distinguerà per sempre da qualsiasi destino segnato dalla società, dall'economia, dalla politica e da tutta quella congerie di ingiustizie, da tutto quell'ammucchiarsi di rovine (come dice l'illuminista Alessandro Manzoni) che chiamiamo Storia.

Questa mia lettura de I miserabili come romanzo sacro, di cui sono fermamente convinto, si fonda sulla

realtà dei fatti, non credo di avere inventato nulla. E, in un romanzo, i «fatti» non sono solo gli eventi narrati, sono anche e soprattutto i simboli che ne reggono la struttura: un romanzo è un corpo, non è realtà virtuale.

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