I poeti armeni salvati dal genocidio

Da Varujan a Siamantò: uccisi dai turchi, la loro opera sopravvive

I poeti armeni salvati dal genocidio
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Coltivavano esseri umani. Proprio così. Gli allevamenti erano a Chankiri e ad Ayas, nella campagna di Ankara. Lì coltivavano esseri umani, nutrendoli con la paura. Poi, ogni tanto, per placare la fame turca, ne uccidevano qualcuno. Non sapevi quando. Né come. Come bestie al macello. La retata accadde il 24 aprile 1915. Quel giorno iniziano le deportazioni in campagna e comincia, sistematicamente, il genocidio armeno. Anche il poeta fu arrestato quel giorno, il 24 aprile 1915. Daniel Varujan aveva moglie e tre figli, aveva perfezionato gli studi a Venezia e a Gand, in Belgio. Amava i poeti francesi e Leopardi, traduceva Stéphane Mallarmé e Maurice Maeterlinck, ma era rigorosamente legato alla sua terra, l'Armenia. Dai versi limpidi di questo Pukin armeno riluce «la nostalgia per la Grande Armenia delle cattedrali e dei monasteri medievali, con i suoi leggendari manoscritti miniati, i grandi castelli, gli arcieri e le belle dame sans merci» (Antonia Arslan). Il poeta accettò la deportazione, tradusse il dolore in opera d'arte. «Incorona di spighe la mia lira,/ perché sull'aia, alla fresca ombra del salice,/ io mi possa sedere e generare/ le mie canzoni», canta Alla Musa. Scrive splendide poesie bucoliche («Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare./ L'infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama»), forse prevedendo che quelli sono gli ultimi sguardi che rivolge al mondo.

Il poeta morì quattro mesi dopo la deportazione. Lo presero insieme ad altri, gli legarono le mani, fu tradotto su un carro in un luogo desolato. Poi, come gli altri, lo perquisirono. Lo spogliarono. Lo legarono a un albero, nudo. I soldati turchi si divertirono a torturare il poeta. Prima gli cavarono gli occhi. Poi lo scorticarono. Infine, il poeta morì. «Io vado alla sorgente della luce...», canta il poeta, intoccabile, in una delle liriche vertiginose. Il massacro non si fermò. Varujan, secondo il racconto dei testimoni, aveva riempito sei quaderni di poesie. Quando i poliziotti vennero a prenderlo, li nascose sotto un cuscino. Troppo facile. Anche l'opera di Varujan subì il martirio. Il possidente del luogo «dopo aver lisciato e messo in ordine le pagine, le perforò con uno spago per incartare formaggio e olive per i suoi clienti». Questa è la fine dell'opera del più grande poeta armeno del Novecento. Alcuni testi, tuttavia, scamparono allo sterminio e costituiscono un tesoro poetico di straziante bellezza. Varujan non fu l'unico poeta a essere ucciso. Come lui, morirono in tanti, tantissimi intellettuali, Tlgadintzì e Rupen Sevag, Krikor Zohrab e Siamantò, il poeta dell'«inenarrabile storia» del genocidio armeno, che «con questi miei spietati occhi» ha raccontato dei «cadaveri ammassati fino alla cima degli alberi».

Senza alcuna concessione alla mera testimonianza - la storia dell'arte è più feroce della Storia dell'uomo, ammette soltanto grandi testi ignorando il piagnisteo - le Edizioni Ares pubblicano sotto il titolo Benedici questa croce di spighe la prima Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio mai tentata in Italia (con un Invito alla lettura di Antonia Arslan, pagg. 240, euro 18).

Dalle ceneri del genocidio «Entro la fine del 1916 non solo tutte le comunità armene erano state deportate, ma, in pratica, il piano di sterminio era completato», contando circa un milione e mezzo di morti - ci giunge una poesia severa e compiuta, strenuamente colta. E una indicazione estetica assoluta: solo le storie inenarrabili, che ci accecano per l'orrore, sono degne di essere dette. Purché si abbiano gli «occhi spietatamente umani» del poeta.

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