Allora tutto si capisce quando lui quasi si distende sul tavolo, prende delle foto e inizia a descrivere il palco dei suoi prossimi concerti: «Sarà una sorta di diamante. Alle mie spalle ci sarà uno schermo mostruoso, seicento metri quadri. E per trovare l'ispirazione ho studiato tutte le grandi rockstar che riempiono gli stadi, da Springsteen agli U2 a Vasco». Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti è entrato nella terza fase: prima semplice promessa, poi sempre obbligato alla conferma, ora superstar. «Mi sento in Champions League. Voglio fare un giro sulle montagne russe della mia musica, festeggio venticinque anni di canzoni e lo farò suonando tutti i brani che sono stati primi in classifica, un greatest hits dal vivo».
Fortezza di Girifalco, poco sopra Cortona, costruita al tempo dei Medici per fare la guerra allo Stato Pontificio e finita quando la guerra non c'era più. Un fortino di pace. Freddo fuori, panorama da lasciar senza parole. Nella grossa sala che una volta era il deposito di armi, lui e la sua band stanno provando le canzoni del Back up Tour che inizia a giugno e sarà il suo primo giro negli stadi (a San Siro il 19 e 20, tutto esaurito ovvio). Saturnino svisa con il basso e si diverte a imitare il rombo di una moto. Jovanotti dirige senza bacchetta. E' più magro del solito, jeans e cappello un po' stile Tom Waits, energia a palla: «Sorrido quando Fazio parla di musica d'arte: la musica è sempre arte. E stavolta voglio fare un upgrade rispetto al passato: i miei concerti saranno una sorta di deejay set con una band invece che con un giradischi. In fondo la mia regola è sempre la stessa: la pista non si deve svuotare perciò canterò pure Gimme five, oltre a brani come Ti porto via con me che ha i 130 bpm tipici della dance». Prima di lui sul palco arriverà un deejay (a Milano sarà Benny Benassi) e prima ancora Il Cile, i Tre Allegri Ragazzi Morti e il rapper gioiello Clementino.
Poi boom. Dopotutto, gli stadi sono la laurea per qualsiasi popstar. E lui ci arriverà ballando perché Jovanotti in questo momento si sente ballerino. «Voglio che il mixer diventi uno strumento in più come per David Guetta o Will.i.am che creano musica usando proprio il mixer: una volta mi dava fastidio quando i deejay dicevano di suonare. Ma come, pensavo, si suona solo con gli strumenti. Oggi invece i deejay suonano e il mixer è il loro strumento». Quindi preparatevi: negli stadi di Jovanotti si ballerà più di quanto ci si aspetti. E non è soltanto un vezzo modaiolo. «La dance è il nuovo rock. In fondo il trio di dj Swedish House Mafia ha riempito quattro concerti consecutivi al Madison Square Garden di New York mentre i rockettari Arcade Fire, che amo, soltanto due e i Maroon 5 uno solo. E ho provato a capirne il motivo: la parola è abusata, non c'è mai stato un flusso di parole così imponente. Quindi nella musica si cerca il battito, il ritmo tribale perciò il mio show non sarà complicato né concettuale ma grande e semplice, che sono i concetti chiave più difficili da mettere in pratica».
Però attenzione, non è la fine delle parole in musica: «La gente mi dice: ormai nelle canzoni non si parla più di cose importanti. Non è vero: ascoltatevi i dischi di Fabri Fibra o di Emis Killa: cantano i rapporti personali, la famiglia e l'amore. Solo che lo fanno con un linguaggio nuovo che magari non interessa a un cinquantenne». E c'è sempre un'ingenua visionarietà adolescenziale in questo 46enne che a New York ha fatto il master da popstar e ora torna qui con la lezione sottobraccio: «Cantando nei piccoli club americani ho imparato a essere meno forsennato, gestisco meglio le pause, insomma sono nuovo». D'altronde negli stadi vincono «i grandi suoni e i grandi silenzi, non c'è via di mezzo». E nella via di mezzo ora galleggiano la politica («Credo che bisognerebbe fare una nuova legge elettorale e poi la sinistra dovrebbe presentarsi con Renzi candidato») e i luoghi comuni («Non mi interessa di che sesso sia il politico: mi interessa che sia capace»).
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