L'angoscia è una malattia di famiglia

L'angoscia è una malattia di famiglia

La rapsodia di racconti dell'ungherese László Darvasi (1962) è ungherese non soltanto per l'ambientazione che oscilla dalla centralità stralunata, noir e grottesca della capitale, Budapest, all'alienante piattezza, orografica e morale, della puszta, terra desolata alla maniera di Eliot e molto più profonda e imperscrutabile di qualsiasi provincia della letteratura occidentale che conosciamo, europea o statunitense che sia, ma anche per la potenza espressiva che rimanda proprio alle Rapsodie di un altro ungherese, Franz Liszt.

Darvasi ha strutturato la sua rapsodia di 36 quadri in tre movimenti: «Dio», «Patria», «Famiglia». Ma se «Dio» sta per ciò che non rientra a pieno titolo nell'umana comprensione (la magia di un vocabolo astrusissimo pronunciato da un ragazzo quasi senza l'uso della parola, la fatalità di un incidente stradale, il mistero di una coppia di mongoloidi, l'assurdità della tenera amicizia che lega due padroni di cani sebbene l'uomo abbia ucciso il cane della donna...), e se «Patria» serve quasi soltanto a tracciare le coordinate spaziali indicate sopra e quelle temporali, grosso modo dalla caduta del Muro di Berlino all'avvento dei telefonini, è «Famiglia» la parola chiave che apre a Darvasi le porte della narrazione. Soprattutto, è la dialettica fra un genitore e un figlio o una figlia a dominare la scena, in queste prose densissime, inquietanti, fra Peyton Place e American Beauty. Oppure, per non andare dall'altra parte del mondo e restare nel grande alveo composto dall'eredità austroungarica e da quella russa pre-sovietica, che sono due patrie o meglio due coacervi di patrie, qualcosa fra Lernet-Holenia e Leskov.

Fra le pagine, prima delle soluzioni finali che peraltro spesso non risolvono nulla, ma lasciano aperta la questione, senza risposta l'interrogativo, il lettore si sente a disagio. Si è come «color che son sospesi», in un Limbo che non ha nulla dell'asettica e momentanea sala di attesa, al contrario, in uno straniante giardino dei supplizi fisici o estetici, come quelli di Octave Mirbeau. Un papà spinge la sedia a rotelle su cui siede la figlia e subito arrivano dei teppistelli... Un anziano padre cade e resta immobilizzato, e il figlio decide di... venderlo a un tale che detiene il racket delle elemosine (molto altro dovrà subire, il povero vecchio, che ha il cinismo di un Diogene e la resilienza di un personaggio beckettiano). Un figlio ogni sera va a riprendere all'osteria il padre, puntualmente ubriaco, lo adagia su una carriola e... nel buio della notte lo scarica a terra riempiendolo di calci. Ma forse il peggiore, nel bigoncio di Darvasi, è quel padre che scopre su internet che sua figlia di mestiere fa la pornostar: basti il titolo, Al papà manchi tanto.

«Famiglia» vuol dire anche, nonostante tutto, amore. E in questo senso due figure si stagliano, nella puszta diffusa, come vette inaccessibili: la donna che va alla fabbrica dov'è morto il marito, maciullato da una macchina ancora insanguinata, e il marito che va in Romania a recuperare il cadavere della moglie.

Dalla morgue dove il poveretto cerca la sua donna al rientro verso casa, dove un gruppo di zingari lo circonda con fare minaccioso, questa piccola odissea stringe alla gola come un cappio. La raccolta di racconti Mattina d'inverno con cadavere (il Saggiatore, pagg. 329, euro 22, traduzione di Dóra Várnai) è il primo libro di Darvasi edito in italiano. Ce ne auguriamo molti altri.

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