A «Lebanon» il Leone d’oro snobbato il cinema italiano

VeneziaPoteva essere l’anno dell’Italia. Non è andata così. Almeno nessuno dirà più che era un concorso truccato, «costruito» apposta per far vincere Baarìa e Medusa. Del resto, le giurie sono autonome, non deliberano in base alle chiacchiere preventive o alle stellette dei critici. Così, alla fine, il Leone d’oro è andato all’israeliano Lebanon di Samuel Maoz, certamente tra i più personali di Venezia 66 per il punto di vista scelto: la torretta di un carro armato. Nel ritirare il premio dalle mani di Ang Lee, presidente della giuria, il regista ebreo ha dedicato il film «a tutti coloro che sono tornati vivi dalla guerra, come me: apparentemente stanno bene, si sono sposati, hanno avuto figli, lavorano, ma il ricordo di quei giorni terribili resta dentro di loro». E subito dopo: «La morte alimenta la guerra, la guerra è alimentata dalla morte: quando smetteremo di uccidere forse smetteremo di fare la guerra».
Pochi minuti prima, al culmine della svelta cerimonia condotta da Maria Grazia Cucinotta e ripresa da Rai4, un altro caloroso applauso aveva accolto il Leone d’argento alla regista iraniana Shirin Neshat per Women without men. «Sto per svenire», ha confessato la cineasta esule a New York. Salvo poi riprendersi e spiegare alla platea il senso del suo film: «È un messaggio di libertà e democrazia rivolto al governo del mio Paese perché faccia pace col popolo dell’Iran». Chissà se al presidente Ahmadinejad saranno fischiate le orecchie.
Israele e Iran, nemici storici, riuniti dunque sul palco della Sala Grande. Vorrà dire qualcosa? Probabilmente sì. Ma non si vive di sola politica, anche in questa Mostra all’insegna dei mali del mondo, e così è giunta come una lieta sorpresa il Premio speciale della giuria caduto sull’ilare e frizzante commedia tedesca Soul Kitchen, diretta dal turco Fatih Akin.
E l’Italia? Deve accontentarsi della Coppa Volpi alla russa Ksenia Rappoport per la sua prova in La doppia ora di Giuseppe Capotondi. Elegante (pure sexy) nell’attillato abito di rete dorata su fondo nero, l’attrice dagli occhi verdi ha ringraziato un po’ tutti, confessando di sentirsi emozionatissima, «come se stessi atterrando col paracadente» (voleva dire paracadute).
Emozionato pure Colin Firth, il più desiderato dalle croniste al Lido, Coppa Volpi per A single man, altra opera prima. Anche spiritoso. In un amabile italiano, l’attore britannico ha improvvisato il discorso più simpatico della serata. State a sentire. «Quant’è bella questa coppa da vicino! Negli anni l’Italia mi ha inondato di regali: l’arte, la musica, la cucina, i vini, la grappa, due figli e una moglie bellissima che mi sopporta da quindici anni e non se la prende per questi strani ruoli da marito “diverso” (nel film è un professore gay)». Pubblico in brodo di giuggiole.
La cerimonia era cominciata alle 19 in punto, dopo un veloce red carpet appesantito dall’umidità. Assente il ministro Bondi, e non dev’essere un caso, la Cucinotta ha chiamato l’applauso per il direttore, definito «il fabbricante di questi sogni meravigliosi». Undici i riconoscimenti principali, tra i quali il Leone del futuro (100 mila dollari) al filippino Engkentro di Pepe Diokno, il Premio Controcampo italiano a Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli e il Premio Mastroianni a Jasmine Trinca per Il grande sogno. Per esser brava è brava: ma tutto si può dire meno che Jasmine sia un’attrice emergente. Misteri veneziani.
Anche Todd Solondz, dato a un passo dal Leone, avrebbe avuto qualche motivo per lagnarsi. Invece il sulfureo cineasta americano sportivamente ha accettato, senza battere ciglio, l’Osella alla migliore sceneggiatura.

«I’m an happy person» (sono una persona felice), ha sorriso da dietro gli occhialini da nerd. È toccato a Stallone, saggio e molto zen, il compito di chiudere la cerimonia prima che partissero, nel fuggi fuggi generale, gli spezzoni in anteprima del suo nuovo The Expendables.

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