"L'inserviente" di Frapié chiede asilo (politico)

Macerie sociali e familiari nel diario di una bidella tuttofare in una scuola materna all'inizio del '900

"L'inserviente" di Frapié chiede asilo (politico)

Léon Frapié nacque a Parigi nel 1863, un anno dopo l'uscita de I Miserabili di Victor Hugo. E furono altri, nuovi eppure sempre vecchi «miserabili», seppure piccoli e innocenti proprio come la piccola e innocente Cosette, ma, a differenza di lei, quasi... scolarizzati, a regalargli la gloria, sotto forma di premio Goncourt del 1904. Il suo romanzo entusiasmò il presidente della giuria, Joris-Karl Huysmans, il quale parlò di «capolavoro». Figlio di un gioielliere, Frapié da scapolo collaborava con quotidiani e riviste e coltivava i buoni sentimenti liberali tipici dei buoni borghesi.

Per lui la svolta giunse nel 1888, quando sposò Léonie Mouillefert, insegnante in una scuola pubblica. Furono infatti le note a margine della professione della moglie, i pettegolezzi, le simpatie, le incazzature che Léonie si portava a casa, la sera, sciorinandoli nel dopocena al consorte, a far scoccare in Léon la scintilla della letteratura, nella categoria in voga allora, il «naturalismo», sulla scia di maître Émile Zola. Ed eccolo snocciolare in pochi anni L'Institutrice de Province, L'Ecolière, La Boîte aux gosses, Les Contes de la maternelle. Soprattutto, La Maternelle insignita del Goncourt, ora di nuovo nelle librerie italiane a distanza siderale dall'edizione Dall'Oglio del 1963 con il titolo L'inserviente (Elliot, pagg. 204, euro 17,50, traduzione di Curzio Siniscalchi). Sono stralci di un diario, quelli che ci presenta l'io narrante Rose, l'alter ego di Léonie elaborato dall'abile penna di Léon. Non prima di aver presentato se stessa: ragazza di buona famiglia, orfana di padre e di madre, studi classici coronati dalla laurea in Lettere (caso rarissimo, per una femmina, sul crinale fra XIX e XX secolo, anche nella Francia evoluta, relativamente ai tempi, quanto ai diritti delle donne), ma... licenziata anche dal moroso («la poesia del mio fidanzato non aveva sopravvissuto alla perdita della mia dote», nota con amara ironia), vive con un burbero zio, ufficiale in pensione, al quale chiede un consiglio sulla professione da intraprendere, volendosi finalmente emancipare, quasi alla soglia dei trent'anni. Potresti provare come «femme de service» in una «maternelle», cioè come bidella e sguattera in una scuola materna, bofonchia lui, visto che per fare la maestra la laurea non serve a nulla, in assenza del diploma... E sia, acconsente Rose, «è necessario che non mi annoi».

Eccola dunque prendere servizio in un asilo di Ménilmontant, nel XX arrondissement parigino. Una direttrice e due maestre si dividono circa duecento allievi fra i due e i sei anni. Rose, lavorando di ramazza e di straccio, deve ingranare la retromarcia culturale per adeguarsi alla situazione: «ne ho avuti, mal di testa e vertigini, a disimparare!». Stigmatizza le «incrostazioni di disciplina» del sistema (dis)educativo, basato sul solito refrain Dio-Patria-Famiglia, cataloga i caratteri dei bambini e dei loro genitori fra «atavismo morale» e «perversioni istintive». Tocca con mano le conseguenze dell'alcolismo nei padri disoccupati e delle marchette per pochi spiccioli nelle madri, registra come le violenze domestiche si ripercuotono sul carattere dei futuri uomini e delle future donne, conosce, per la prima volta, il dolce sapore del proprio istinto materno e a lungo andare lo teme, come si teme un virus impossibile da debellare. Il tutto, sotto una cappa opprimente di formalismo e burocrazia. «L'odore di matita, di cane bagnato e di patate fritte (...) ha suscitato in me una specie di timore amministrativo».

Per quanto si sforzi di stare al suo posto, Rose non può esimersi, appena turbata dalla timida attrazione che prova per il coetaneo «delegato mandamentale», dal fornire a se stessa e al lettore alcuni rudimenti di

pedagogia, altrimenti detta umanità. «Tu mi vuoi bene perché ti do i bonbon?», chiede a Bonvalot, un omologo del Franti deamicisiano. «No», risponde lui, toccandole il cuore, «perché nei tuoi occhi ci sono delle figure».

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