Dopo l'aria rarefatta della Montagna incantata, gli toccò l'afa del mare affollato. La prima era stata lavoro: sodo, ininterrotto, assoluto come piaceva a lui. Gli aveva assorbito ogni fibra mentale e fisica per oltre un decennio, «alleggerito» soltanto da due «idilli», Cane e padrone e Il poema della piccina, e dalla revisione dello «scorrettissimo» Sangue welsungo, lungo racconto macchiato dall'incesto perpetrato dai gemelli Siegmund e Sieglinde.
Il secondo, invece, era vacanza. Ma per Thomas Mann «vacanza» era una parolaccia. Peggio, una bestemmia. Significava fare di tutto tranne che sacrificare se stesso al dio della scrittura. L'anno precedente, peraltro, aveva già dovuto sopportare una trasferta estiva. Anche quella in Italia, a Casamicciola, in un'Ischia che gli apparve «un'Africa quasi completa... troppo ricca di azzurro, di luci crude e di odori intensi... con fichi meravigliosi, ma anche con molte pulci insolenti».
E adesso, in quel 1926 che, come vedremo, sarà cruciale non tanto per la sua carriera di scrittore, quanto per la sua dimensione civile di ex «impolitico», chinava di nuovo il capo e soggiaceva alla volontà dei «piccoli» di casa, più che della moglie Katia. I «piccoli», ovviamente, sono gli stessi che erano stati trasposti nel coevo Disordine e dolore precoce, cioè i figli Elisabeth, nata nel '18, e Michael, nato nel '19. Così, mentre già pregustava il lungo bagno ristoratore nel Mediterraneo biblico di Giuseppe e i suoi fratelli, la tetralogia cui da pochi mesi aveva iniziato a dedicarsi e che uscirà fra il '33 e il '43, il povero Thomas, buon padre di famiglia, doveva accontentarsi di rinfrescare i piedi sul bagnasciuga di Forte dei Marmi.
La scelta, infatti, cade sulla Versilia, che era allora come è adesso, se non dal punto di vista dei decibel e della ressa, da quello della fauna. Quindi ricettacolo per ogni genere, generone e generetto sociale proveniente non soltanto da Roma ma anche da altre città, mischiato al popolo e al popolino locale e agli aristocratici e ai nobili ancora in sella o decaduti. Unica nota positiva, per il Nostro, il fatto che la stagione non è più altissima. I quattro Mann vi giungono dopo Ferragosto, poiché il Gran Hotel prima era pieno come un uovo, o almeno così affermavano i titolari... E il 15 settembre, in una lettera all'amico Ernst Bertram, Thomas poteva annunciare, con malcelato sollievo, che erano finalmente rientrati a Monaco da un paio di giorni.
«L'atmosfera stessa di Torre di Venere era inquinata: sovreccitazione, irritabilità, umore agro, appesantivano l'aria sino dal principio». Questo l'incipit, nella traduzione di Giorgio Zampa che oggi suona decisamente vintage, di Mario e il mago, il diario-racconto in differita che Mann dedicò tre anni dopo, durante un'altra, ma del tutto differente, vacanza a Rauschen, sulla penisola di Samland in riva al Baltico, a «Una tragica esperienza di viaggio», come recita il sottotitolo. «Torre di Venere» sta per Forte dei Marmi, così come «Portoclemente» («una delle stazioni balneari di maggior grido della costa tirrenica») è Viareggio, mentre «Marina Petriera» nella lettura di Zampa, o «Marina di Petraia», è Marina di Massa.
L'approccio non lascia presagire nulla di buono, e si sa che quando arrivi in un posto che di primo acchito non ti sconfinfera... Non è soltanto colpa del caldo, della troppa gente, delle seccature logistiche con tanto di repentino cambio di albergo, che portano i Mann a rifugiarsi nella Pensione Eleonora (come viene ribattezzato l'Hotel Regina). C'è qualcosa di più pesante del disagio di un turista che si sente fuori luogo. Thomas avverte nell'aria un afrore pungente di nazionalismo mal riposto, di grottesco orgoglio patrio, di strisciante sciovinismo... Per un tedesco, poi... e per un tedesco del Nord, oltretutto, nato a Lubecca, quindi geograficamente e culturalmente quasi scandinavo, è difficile passar sopra agli sguardi di sottecchi, ai mormorii e ai risolini dei «meridionali» che, innamorati del loro nuovo duce, vedono nello straniero un quasi certo nemico.
Ma lasciamo la politica alle chiacchierate sotto l'ombrellone, e torniamo alla vacanza, se così la possiamo chiamare. La prima a urtare l'animo, maldisposto di suo, di Thomas è una Principessa romana scesa al Grand Hotel. Poiché ogni tanto Elisabeth e Michael, che avevano avuto la tosse asinina, danno ancora qualche colpo di tosse, l'ansiosa nobildonna teme che i suoi bambini ne possano essere contagiati. Per farla breve, i Mann vengono confinati nella dépendance, come untori, nonostante il medico chiamato a visitare i mannini li abbia dichiarati sani come pesci. Urge cambio di rotta onde non entrare in collisione con l'altolocata seccatrice. Il trasferimento alla Pensione Eleonora solleva il morale della truppa. L'ambiente è famigliare, il cibo è nettamente migliore, le stanze sono più tranquille.
Tutto a posto? Mica tanto. «Quanto a me, confesso che mi riesce difficile dimenticare uno scontro con la piatta umanità, con l'ingenuo abuso di forza, l'ingiustizia, la servile corruzione». Il caldo resta «africano» come l'anno prima a Ischia, esagerata la maleducazione dei bagnanti, assordanti le urla dei mocciosi capricciosi. E quando Elisabeth, per pulire il suo costumino tutto imbrattato di sabbia, osa toglierselo un momento sciacquandolo in mare... apriti cielo! Le vibrate proteste dei ben(mal)pensanti assumono il tono di un can-can scandalizzato. Qualcuno avverte «l'autorità». L'autorità si precipita sulla battigia, considera il caso «molto grave», convoca i genitori della scostumata nudista in Municipio e impone «un'ammenda di cinquanta lire». «Codesto contributo al bilancio del Governo Italiano venne da noi considerato come prezzo dell'avventura; pagammo e ce ne andammo. Non avremmo dovuto preparare i bagagli e partire? L'avessimo fatto! Si sarebbe allora evitato il fatale Cipolla».
Cipolla, chi era costui? Era il realmente esistito Cesare Gabrielli (o Gabbrielli), nato a Pontedera nel 1881. Ex legionario fiumano, riciclatosi con successo come illusionista e ipnotizzatore. In Mario e il mago diventa Cipolla, appunto. «Il Cavalier Cipolla, come era certificato negli avvisi che un giorno si trovarono affissi dappertutto, anche nella sala da pranzo della Pensione Eleonora: un virtuoso ambulante, un artista del divertimento, forzatore, illusionista e prestigiatore (così si qualificava), che avrebbe avuto l'onore di presentare al rispettabile pubblico di Torre di Venere alcuni fenomeni straordinari di misteriosa e sconcertante natura». L'annuncio mette in fibrillazione grandi e piccini, e anche i coniugi Mann decidono di presenziare all'evento che si tenne, ricordano gli storici locali, nel capannone della Società di Mutuo Soccorso.
E così, sotto i sapienti polpastrelli di Thomas, il monotono tran tran di un soggiorno non goduto ma subìto monta in una cinquantina di pagine con una tensione narrativa che sfocia nel dramma. Il Cavalier Cipolla coinvolge il pubblico, un trucco dopo l'altro, mandando in estasi tutti tranne le sue vittime, incapaci di resistere alle sue abilità incantatorie da psicologo truffatore, e il Nostro. «È evidente che non si può vivere psichicamente di non-volere; non voler fare una cosa non è più, alla lunga, un indice di vita; non volere qualche cosa, e in genere non volere più - fare, quindi, la cosa imposta - sono due posizioni, forse, troppo vicine, perché l'idea della libertà non debba trovarsi alle strette».
Queste parole hanno fatto leggere il racconto manniano come una metafora del fascismo. Cipolla, che per due volte durante lo spettacolo fa il «saluto romano», sarebbe una caricatura di Mussolini. Molti anni dopo, da Pacific Palisades, Mann lo conferma indirettamente, scrivendo al germanista Henry C. Hatfield: «Ho ancora un debole per questa storia. Al tempo in cui la scrissi, non credevo alla possibilità di un Cipolla tedesco. Era una sopravvalutazione patriottica del mio paese. Già il modo irritato con cui la critica accolse il racconto avrebbe dovuto farmi capire in che direzione si stava andando, e cosa poteva accadere anche nel più colto dei popoli, anzi proprio nel più colto». Ma che significa quella «sopravvalutazione patriottica del mio paese»?
La risposta è nell'epilogo (romanzato) di quella serata. Cipolla si fa beffe di Mario, il simpatico cameriere del caffè-giardino «Esquisito» che ha preso in simpatia i piccoli Mann. Lo ipnotizza e, parlandogli di Silvestra, la ragazza che il giovane ama, gli fa credere di averla davanti, carpendogli quindi un bacio spacciandosi per la fanciulla, nello stupore generale. Ma poi Mario, quando Cipolla rompe l'incantesimo con l'abituale colpo di frustino, spinto dalla vergogna di quella «prostituzione dell'intimo» che gli è stata indotta, scende dal palco e, agguantata una pistola, «piantandosi d'impeto sulle gambe, con un gestire veemente scagliò in alto un braccio, e due fiacche detonazioni perforarono risa e applausi».
Cipolla è morto, il popolo si è ribellato al suo duce. E con Cipolla, come accennavamo all'inizio, è morto anche l'«impolitico» Thomas Mann. Il quale da lì in poi scenderà in politica, anche se a modo suo, con l'eleganza del fine intellettuale. Mario e il mago non è un semplice racconto, è una profezia. Formulata quando il «Cipolla tedesco» aveva già intrapreso la sua folle conquista del mondo.
«Era proprio questa, la fine?», chiedono i piccoli Mann, «per andarsene
più sicuri... Sì, era la fine confermammo loro. Una fine terrificante. Una fine altamente fatale. E tuttavia una fine liberatrice: non potei e non posso a meno di sentire così».I Mann tornano a casa. L'Italia resta dov'è.
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