Margherita Sarfatti, rivoluzionaria curatrice che sposò la causa della "moderna classicità"

Museo del Novecento e Mart ricostruiscono la parabola dell'intellettuale

Margherita Sarfatti, rivoluzionaria curatrice che sposò la causa della "moderna classicità"

Limitativo, con un evidente vizio di forma, ridurre la complessa personalità di Margherita Sarfatti alla liaison con Mussolini, di cui pubblicò la biografia Dux nel 1926. Rapporto che, peraltro, non bastò a salvarla dalle persecuzioni razziali, costringendola a emigrare in Argentina. In quell'epoca, al netto dell'ideologia, erano in molti a pensare: artisti, architetti, persino i politici come il ministro della cultura Giuseppe Bottai, promotore della rivista Primato e del Premio Bergamo. Un ruolo non contemplato, però, per le donne, che il regime voleva fattrici. Ecco perché Margherita Sarfatti giganteggia nell'Italia primonovecentesca: pensa, scrive, teorizza, produce. Modernissima, anticipa Palma Bucarelli e le curatrici del presente.

Una storia, la sua, cominciata ben prima del Fascismo. A Milano, la città del lavoro, della politica e della tecnologia che culla e incrementa le arti. Nasce dalla famiglia ebraica Grassini nel 1860 a Venezia, sposa l'avvocato socialista Cesare Sarfatti nel 1898 e nel 1902 si trasferisce a Milano, rimanendovi fino alla fine degli anni '20. Importante dunque la contestualizzazione con i fermenti lombardi, nucleo della mostra milanese al Museo del '900 che apre domani, in concomitanza con il secondo capitolo allestito al Mart di Rovereto, che ne ha acquisito l'intero fondo e archivio. Non trascurando la crescita del mercato, Sarfatti si fa sostenitrice del classicismo dopo la temperie delle avanguardie, Futurismo in testa. Nostalgia per il passato? Tutt'altro. Una condizione che si è ripetuta nel tempo perché per buona parte del XX secolo, quando l'arte era ancora specchio della Nazione che la produceva, la pittura si riaffacciava periodicamente all'attenzione critica. Non è la sola - altre voci sono quelle di Ojetti, Bucci, Giolli - ma la più convinta e fervente è voce di una donna. Frequenta il salotto di corso Venezia 93 insieme a Medardo Rosso, Arturo Martini, Massimo Bontempelli. Qualche volta le fa visita un innamorato Mussolini.

Nel 1925 pubblica Segni, colori e luci. Note d'arte, appunti critici sul fare disciplinato, costruttivo e razionale ove si richiama la pittura bella e ordinata sacrificando il gesto fine a se stesso, l'orpello. Propaganda? Giudizio parziale. «La rappresentazione immediata degli eventi del nostro tempo - scrive - non si confà alle tradizioni della grande arte nostra. Si potrebbe forse sostenere che è contraria all'essenza stessa della vera grande arte, di sua natura mistica e leggendaria. Certo è contraria alle mediterranee tradizioni dell'arte italica, la quale, come l'egizia e l'ellenica, è insieme astratta e umanissima. Essa, cioè, traspone i fatti materiali e passeggeri nel campo delle immagini durature e spirituali». Era già nato Novecento, il gruppo composto da Sironi, Funi, Dudreville, Bucci, Malerba, Marussig e Oppi, «giovani artisti e fascisti, cioè rivoluzionari della moderna restaurazione nell'arte come nella vita sociale e politica», fautori di un «ritorno all'ordine» condiviso con la Metafisica di de Chirico, Valori plastici e Realismo magico. «Moderna classicità» è l'ossimoro di una tendenza che recupera, in chiave non rétro, il mistero dell'arte antica e la bellezza della pittura rinascimentale. Curatrice in Italia e all'estero (anche le mostre possono essere un ottimo strumento di divulgazione ideologica), è nel comitato organizzativo della prima Quadriennale di Roma (città dove si è trasferita) nel 1931. Poi il voltafaccia del Duce, che la estromette dal Popolo d'Italia e le preferisce la Petacci come amante ufficiale. Ha però il passaporto e, annusando l'aria cattiva, nel 1938 espatria.

Tornata in Italia nel '47, Margherita Sarfatti nel '55 intitola simbolicamente il suo libro di memorie Acqua passata. Muore nel 1961: ci sono voluti molti anni per rileggerne la figura originale e coraggiosa. Era davvero tempo.

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