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"Maria è fascino altero Elisabetta, manipolata diventa atroce e tetra"

Per Elisabetta Pozzi "sono entrambe sole e la loro parte femminile le rende nemiche"

"Maria è fascino altero Elisabetta, manipolata diventa atroce e tetra"

Un meccanismo infernale e prodigioso per un testo nato insieme all’800, risvegliato a una contemporaneità in cui la relazione tra femminile e potere è più che mai indagata. Maria Stuarda di Friedrich Schiller (regia di Davide Livermore), che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Ivo Chiesa di Genova (fino al 30 ottobre, poi una lunga tournée, prodotta dal Teatro Nazionale di Genova, da quello di Torino, dal Centro Teatrale Bresciano) vede alternarsi Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi nei ruoli di Maria e di Elisabetta I. Ogni sera, una piuma d’angelo decide chi incarnerà l’una o l’altra, come fu per la stessa Pozzi nel 1995 ne L’attesa con Maddalena Crippa o nel 1957 per Vittorio Gassman e Salvo Randone, che si scambiavano i ruoli di Otello e Iago. La storia è nota: uno scontro tra regine, tra chi regna e chi muore, che avviene qui in due stanze d’albergo speculari, castello e palazzo, testiera del letto contro testiera, in un sacrificio per il potere in cui una perderà la vita mortale e l’altra la vita privata.

Signora Pozzi, chi sono Maria ed Elisabetta per Schiller?

«Una tragedia dedicata a due donne che porta solo il nome della Maria. Conoscendo vita e sentire di Schiller il motivo è chiaro: vuole fare un monumento a Maria, la cattolica, la prigioniera, la pentita, la sofferente intatta nella sua dignità. Ne ha fatte di tutti i colori, ma Schiller ha bisogno di farne una martire. Elisabetta è il lato oscuro: tiene in pugno la situazione, non vuole cedere e inventa atrocità, ma si sente fino alla fine colpevole di un regicidio».

Chi è la sua Maria?

«Maria è una donna complessa, piena di fascino, che non si pente di come ha vissuto i primi vent'anni della sua vita, giovanissima regina, poi coinvolta in affaires amorosi, sedotta dal potere si è data al mondo e non si è lasciata scappare nulla. Per me è una donna che non si lamenta mai veramente, si indigna, ma mantiene un senso alto della sua dignità e della sua regalità; sa come difendersi e mantiene la sua sensualità e femminilità pur essendo privata di tutto. Anche nel momento della morte è altera, in tutto il dialogo con la regina dice le cose come stanno e le chiede la libertà. Ha il carattere di una combattente, di una vera donna di potere: non ha la possibilità di esercitarlo, ma non per questo piega la testa».

E la sua Elisabetta I?

«È già tratteggiata in maniera superba da Schiller: racchiude in sé interi mondi. Per me è interessante soprattutto la sua spaccatura: sa che il popolo la sostiene, ma nel momento in cui dovesse arrivare alla firma dell'esecuzione perderebbe la sua forza. I suoi monologhi sono potentissimi: pugno forte, capacità di manipolare le persone, ma nel momento in cui capisce di essere stata manipolata diventa una regina oscura, tetra, atroce, fino a quell'attacco isterico che è poi lo stesso che all'inizio dello spettacolo tocca a Maria Stuarda».

Che cosa le accade nell'attimo in cui sa quale delle due metterà in scena quella sera?

«Mi passa davanti agli occhi tutta la vita. Non la mia, quella del personaggio. Faccio fuoco sulla sua essenza: sul tono di emissione vocale e sul movimento del corpo, più morbido e abbandonato per Maria, più fermo e ipnotico per Elisabetta».

Funziona, in scena, il potere alle donne?

«Mettere in scena una donna di potere è oggi estremamente interessante, perché consente più elaborazione.

Qui funziona perché le due regine contengono in sé, oltre alla maestà, la parte femminile che le fa diventare nemiche dell'altra in quanto amante dello stesso uomo, la parte umana che si incrina là dove il potere prende possesso della scena. Il potere poi esclude dal resto della vita, rende soli e la solitudine di una donna fa più tenerezza di quella di un uomo, è più espressa».

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