Marinelli e le colpe dei nonni che ricadono sui nipotini

"Il silenzio di averti accanto" è una saga familiare che parte dal Ventennio fascista e giunge fino a oggi

Marinelli e le colpe dei nonni che ricadono sui nipotini
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L'avrei messo da parte. Impossibile. Leggere due libri nello stesso istante. Uno per diletto, l'altro per dovere. Difficilmente le due cose coincidono. Diletto e dovere. In questo caso, però, il pregiudizio va ribaltato nell'eccezione. Stavo leggendo Il caos e la notte di Henry de Montherlant, edizione modesta (Bompiani, 1980), mi segno questa frase. «La natura della coppia coniugale, di solito, è una abitudine gravida di stanchezza. Ma questo si sa. Lo si sa meno dell'amicizia. Lo si sa ancor meno dei legami tra genitori e figli. La nostra esperienza, e così la storia, ce ne mostrano peraltro, con terribile forza, la fragilità... ci si lascia per sempre, in un momento, come se non ci si fosse mai conosciuti».

Il caso editoriale m'accoppia al nuovo libro di Giancarlo Marinelli, uno che il mestiere lo conosce (con Dopo l'amore e Ti lascio il meglio di me preda il Campiello), Il silenzio di averti accanto (La nave di Teseo, pagg. 404, euro 20), e mi scolpisco in testa questa frase, che associo a quella di Montherlant: «Questa è la verità: noi padri con i figli non c'entriamo un cazzo. Per questo diamo loro il nome dei nostri padri». Si affibbia un nome sfiduciando il caos, per vincere la notte degli affetti - sempre relativi, reazionari, volubili. Vado avanti. Mi pare che tra i due libri - quello di Montherlant, questo di Marinelli - ci siano micidiali sintonie, vanno letti insieme. Stanare le proprie remote radici, ad esempio: a cosa appartengo nell'era dell'inappartenenza? E poi: giostrare un ragionamento sulla Storia, senza avvilimenti accademici, senza il vilipendio della boria, con brio, con scanzonata ferocia. Se Il caos e la notte (in origine: Gallimard, 1963) è un livido, tenebroso, grottesco requiem sul corpo lacero del Novecento, Il silenzio di averti accanto è un accattivante tentativo di dire l'indicibile della nostra storia patria, il fascismo - e il suo fascino.

Marinelli alterna due piani: quello presente di un quasi padre (reiteratamente appellato «il ragazzo che non è più un ragazzo») che deve pensare al nome da dare al figlio, e quello passato, dei nonni, Almo e Marino, che hanno vissuto il Ventennio da trincee contrapposte: il primo fervente comunista, l'altro audace fascista. Una riflessione altrimenti banale - non c'è futuro senza il passato - è trafitta da questioni e inquietudini - e se il futuro fosse possibile soltanto incenerendo ciò che fu? - è sconfitta da un passo narrativo invidiabile. I personaggi storici sono resi autentici da una scrittura familiare, a tratti cinicamente macchiettistica (questo è Ciano: «Galeazzo ha la faccia del gatto che s'è sgraffignato il topo, la faccia del regista che in un colpo solo s'è fottuto produttore, prima attrice e pubblico di mezzo mondo»; questo è Togliatti: «c'ha un palmo vellutato il Palmiro, nemmeno il principe Giovannini aveva mani così intonse, lisce; non una ruga, un segno, una traccia di sgobbo e sofferenza»). Soprattutto - per restare nella liaison con Montherlant, il più alto stilista della letteratura francese - c'è una certa vigoria retorica che riconcilia con il romanzo italico, di solito autobiografico in modo catacombale, prono a spiare il deretano della cronaca spiccia («Cerchiamo i modi più originali per ficcare la lingua in bocca a una donna che non ci deve confondere con qualcun altro; per cadere da una sedia quando siamo ubriachi, così che gli amici ne ridano finché campano. Cerchiamo un modo solo nostro di camminare tra i banchi del mercato, di girare la forchetta dentro gli spaghetti... Nella gestione del dolore, nella consumazione del lutto, invece no. Tutti uguali, banali, perfettamente educati a seguire alla lettera le regole mai scritte nel Galateo dell'Abbandono. La morte non si deve ricordare di noi»).

Del Ventennio non si nega nulla, né il rapporto degli ebrei con il fascismo («Vogliamo solo che il Duce, il partito, tutti quanti sappiano che noi siamo amici loro. Siamo pronte a fare un proclama. Noi e tutta la comunità: viva il Fascismo e viva gli ebrei fascisti»), né l'asprezza della delusione, espressa con felice furia («Davvero Marino non capisce perché Benito continui a dar retta alla Marionetta Imbianchina, di più, non capisce come il popolo tedesco possa andare matto per questa pupazzetta isterica in menopausa; come possa essere sedotto dalla sua voce da checca tradita, da vecchia zitella che non ha mai conosciuto un uomo e allora controlla ogni sera le mutandine delle nipoti belline»).

Nessuna rassegnazione, però, nessuna vaga patina malinconica: il romanzo, in fondo, celebra la nascita, e non si scrive se non per trovare un nome a chi ci è erede. Un padre dona al figlio le proprie radici. Che andranno recise, perché questo è il magniloquente furore della vita.

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