La Mongolia entra nell'Onu del giallo

In «Yeruldelgger» di Ian Manook affari sporchi e misteri della steppa

Daniele Abbiati

Quando uno stereotipo non infastidisce più, o non era un vero stereotipo, oppure serve a capire come funziona la testa della gente. Anche dei giallisti e dei loro personaggi. I suoi personaggi, Ian Manook, al secolo Patrick Manoukian, giovanilissimo francese giramondo classe 1949, è andato a scovarli nella Mongolia di oggi, l'ultima fra le emergenti potenze economiche d'Oriente, terra promessa (alle multinazionali occidentali) delle risorse naturali e delle terre rare, indispensabili tesori chimici utili a spostare un po' più in là, oltre i confini del lecito, i confini delle super tecnologie. Anche laggiù, ci spiega, si guardano le serie di CSI Miami e di Criminal Intent. Anche laggiù c'è un commissario di polizia dalle maniere spicce alla Clint Eastwood, ci sono mafiosi (cinesi e russi), teppisti (coreani), sicari (turchi), neonazisti (locali), truffatori (kazaki), violentatori (ancora locali, negli spazi immensi delle steppe). E, ovviamente, tutori della legge che tutelano tutto tranne la legge.

Questo marcantonio che ha la fisicità di Bud Spencer (pace all'anima sua), l'acume del dottor House e il culto per le proprie radici di Salvo Montalbano si chiama Yeruldelgger, e dà il titolo a un romanzo dalle tinte forti come la violenza che impera a Ulan Bator e dintorni e insieme lievi come quelle che regalano gli sconfinati paesaggi incastrati tra i due bracci della tenaglia Russia-Cina (Fazi, pagg. 522, euro 16,50, traduzione - con qualche asperità forse voluta - di Maurizio Ferrara). Duro e puro, il Nostro ha avuto la famiglia distrutta: figlia minore uccisa, moglie impazzita, figlia maggiore caduta nel gorgo putrido delle pessime compagnie. E ora, cinque anni dopo, cioè nel 2012, si trova a indagare su due casi complessi: nella capitale sono stati bestialmente ammazzati tre cinesi e due prostitute mongole, loro occasionali accompagnatrici, e a centinaia di chilometri di distanza, in uno dei suddetti paesaggi incantevoli, spunta dal terreno il cadavere di una bimba di cinque anni. Il filo che li lega, spesso e solido come le redini con cui i nomadi governano i loro fieri destrieri, non tarda a emergere. Ma a mettere i bastoni fra le ruote al carrarmato Yeruldelgger sono l'ispettore Chuluum e il direttore della giudiziaria «Mickey» Sukhbataar. Perché? Ecco la domanda delle cento pistole, e delle mille possibili risposte.

Quando poi si materializza il fantasma del loschissimo suocero, una sorta di Padrino che si sente onnipotente come Gengis Khan e ha una ricca collezione di scheletri nell'armadio, il commissario capisce che soltanto risalendo alla fonte delle ancestrali tradizioni dove da ragazzo apprese l'abicì dell'essere veri mongoli potrà tentare di dipanare l'intricatissima matassa. A dargli manforte, fra un'immersione nelle fogne di Ulan Bator, una visita (non gradita) al mercato delle auto rubate, un sopralluogo nella steppa che i tamarri coreani usano per scorrazzare in quad gonfi di pessima vodka, sono due donne entrambe non troppo segretamente innamorate di lui, la dolce collega Oyun e la medico legale Solongo. Insieme allo scugnizzo Gantulga, il quale ai giallofili fedeli ai canoni occidentali ricorderà uno degli «irregolari di Baker Street», i giovanissimi collaboratori di Sherlock Holmes. Ma in Yeruldelgger, stereotipi buoni a parte, di canonico non c'è nulla.

E questo, tutto sommato, è un pregio.

Ian Manook sarà questa sera a «Letterature», il Festival Internazionale di Roma. Alle ore 21 lo scrittore francese leggerà il proprio testo inedito «L'uccello blu di Erzurum», introdotto dall'attore Michele di Mauro.

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