A leggere la motivazione, che parla del nostro senso di connessione con il mondo che la forza emotiva dei suoi romanzi avrebbe disvelato come illusorio e coperchio all'abisso, si potrebbe pensare che il Nobel assegnato ieri a Kazuo Ishiguro sia un premio alla generazione analogica, al passato verso il progresso. E in parte è così. L'ultrasessantenne scrittore e sceneggiatore giapponese - tradotto in 40 lingue e autore di 8 opere di narrativa tra romanzi e raccolte di racconti, nato a Nagasaki l'8 novembre 1954 ma vissuto, dai 5 anni in poi, in Inghilterra - è da sempre un attento custode dei temi che riguardano l'umano, il senso dell'esistenza, le questioni morali, bioetiche ed epistemologiche.
«È un grandissimo onore», è stata la sua prima dichiarazione alla Bbc dopo aver saputo del Premio. «Soprattutto perché significa che sono sulle orme dei più grandi autori della storia». E come se si fossero accordati prima, è proprio ai grandi che si rifà il commento alla motivazione di Sara Danius, segretaria permanente dell'Accademia dei Nobel: «Se si mettono insieme Jane Austen e Franz Kafka, ecco in nuce Kazuo Ishiguro, a cui però va aggiunto un po' di Marcel Proust. Poi si mescola un po' ma non troppo, ed ecco i suoi romanzi».
Alla fine degli anni '70, Ishiguro si laurea in Inglese e Filosofia all'Università del Kent, e studia Creative Writing all'Università dell'East Anglia e da subito prende la strada della scrittura come unico impegno esistenziale. Anche se è alla sua Nagasaki che dedica i primi due romanzi, Un pallido orizzonte di colline (1982, Einaudi, come tutti i suoi romanzi) e Un artista del mondo fluttuante (1986), entrambi ambientati pochi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quello narrato in quei volumi è un Giappone immaginario, ricostruito mentalmente negli anni vissuti nel Regno Unito. Dovrà aspettare il 1989 per tornare per la prima volta al suo Paese natale dai giorni dell'infanzia ed è per questo forse che da subito la forza delle emozioni e del vissuto personale la stessa magnificata dalla Accademia svedese - prende il sopravvento sull'engagément: «Ho trascorso molti anni della mia vita senza nemmeno associare Nagasaki alla bomba atomica», ha dichiarato anni fa. «Per me era un bellissimo posto di mare e montagne, di cui ricordo i giorni passati al nido, la mia casa e poco altro. Quando ripenso a Guildford, dove giunsi a cinque anni coi miei, e alla sua atmosfera mi appaiono nel ricordo molto più esotiche del Giappone».
Il 1989 è anche l'anno in cui Ishiguro conquista il grande pubblico: esce Quel che resta del giorno, che vende oltre un milione di copie solo nei Paesi di lingua inglese, conquista il Booker Prize, si merita un film diretto da James Ivory e fa di Ishiguro un nome di risonanza globale. La storia del maggiordomo Stevens ossessionato dal dovere al punto da perdere l'unica occasione di grande amore commuove il mondo e fa affezionare i lettori alla maniera vulnerabile e profonda di Ishiguro di guardare all'individuo: la storia di ognuno è un caso a sé, prezioso, irripetibile. Va protetta e ricordata, indipendentemente dal fatto che sia stata un successo o un fallimento. Ecco perché in Ishiguro l'ordinario diventa poetico e il cliché acquisisce un potente afflato domestico, che rende i suoi personaggi cari come figli o amici o come noi stessi siamo cari a noi stessi.
È accaduto con Quando eravamo orfani (2000), in cui nella Shanghai alle porte della Grande guerra un detective indaga sulla sorte dei suoi genitori rapiti e quindi di nuovo il plot si concentra su una vicenda personale come paradigma della tragedia universale. Ed è accaduto soprattutto con il romanzo distopico Non lasciarmi (2005), con cui Ishiguro, introducendo con coraggio e prima di altri romanzieri blasonati, un genere come la fantascienza nella letteratura alta, affronta una questione che per lungo tempo gli è stata a cuore più di ogni altra: il timore per l'inarrestabile progresso scientifico, quel progresso che dalla bomba atomica si è involuto fino alla possibilità di creazione di altro dall'umano che minaccia l'umano: i cloni. «Ho voluto dei cloni come protagonisti non per addentrarmi in un territorio fantascientifico ma per potermi chiedere: perché siamo stati creati? Che cosa ci rende umani?» raccontò al Giornale, all'uscita del romanzo in Italia, nel 2006. «Una domanda del genere non è più di moda nel mondo letterario moderno e post-religioso, nei romanzi non se ne discute più. La morte mi spaventa meno della scienza, che invece ci sfugge».
Con Non lasciarmi si apre per Ishiguro un periodo in cui la trama trascende nel mito, che sia futuribile o popolare.
Periodo che trova compimento nella sua ultima opera in ordine di tempo, Il gigante sepolto (2015), che vede protagonisti una coppia di anziani, Axl e Beatrice, alla ricerca del figlio adulto, in viaggio in un paesaggio bucolico, tra «castelli pieni di musica, buon cibo, campioni di eccellenza fisica, monasteri abitati da individui immersi nell'apprendimento del piacere». Come nella tradizione fiabesca. E così il mito è il miglior pilastro alle parole chiave che segnano il Nobel Ishiguro: storia e memoria, amore e morte. Come nella più straordinaria tradizione letteraria.
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