C'è una frase di Emma Dante che sintetizza bene personalità, obbiettivi (e provocazioni) di una delle più discusse registe italiane. «A teatro non voglio la tradizione. Voglio dare le spalle al pubblico». Insomma: chi l'adora come chi la detesta - sa cosa aspettarsi da Odissea andata e ritorno: il nuovo spettacolo dell'acclamata e contestatissima regista palermitana, dal 6 luglio (e per due repliche in più, data la gran richiesta) a Spoleto. «Ma le spalle al pubblico sono solo una metafora chiarisce lei -. In uno spettacolo del grande regista polacco Kantor vidi attori che parlavano al muro invece che agli spettatori. Quella fu per me una vera folgorazione».
In che senso?
«Di colpo capii cosa volevo fare col mio teatro. Non dovevo più occuparmi del pubblico. Se volevo trovare un'espressività diversa e personale, se volevo ricercare qualcosa di nuovo, dovevo guardarmi dentro».
Diversa e personale sarà anche l'Odissea andata e ritorno di Spoleto.
«Lo spero. Dell'Odissea tutti conoscono il viaggio del protagonista: Polifemo, Nausicaa, le sirene eccetera. Ma c'è anche un altro tipo viaggio: quello tutto interiore del figlio di Odisseo, Telemaco, che alla partenza del padre è un bambino e al suo ritorno un uomo. Cosa gli è successo, nel frattempo? Cosa ha provocato quell'assenza? Ecco allora l'andata e ritorno della crescita di un'anima, all'interno di una famiglia».
La famiglia cupa, fatta di violenza e sfacelo, che è spesso al centro dei suoi spettacoli.
«Non cupa: realistica. La famiglia è un luogo dove l'individuo impara a fare i conti cogli altri, spesso anche attraverso violenze e legami corrotti, morbosi, e sempre fra persone che non si sono scelte fra loro».
Ma ci sono anche famiglie sane, felici, costruttive... perché non racconta quelle?
«Le famiglie felici non m'interessano. Io mi occupo dei problemi. Non delle soluzioni».
E che ne pensa della tradizione teatrale? Di chi recita verso il pubblico invece che verso il muro?
«Guardi che io è proprio dalla tradizione che parto! Bisogna rammentare ciò che è stato fatto dai grandi maestri del passato. Solo che poi va usato per cercare altro».
Anche contro la tradizione più forte che esista, quella dell'opera? Anche a costo dei fischi che l'hanno accolta alla Scala nella Carmen del 2009, o nella più recente Cenerentola all'Opera di Roma?
«Forse quelli che mi hanno fischiato alla Scala sono già tutti morti. Ne è passato di tempo, nemmeno me ne ricordo più. E poi mica solo alla Scala, sono stata fischiata. Per fortuna in teatri di tutto il mondo ho trovato gente che mi faceva buuuh!, che pestava i piedi adirata...»
Per fortuna?
«Certo! Il teatro non è un museo. L'opera non può stare dentro una teca. E se lo spettatore fischia vuol dire che la teca si è rotta. Intendiamoci: io non sono di quei registi che amano lo scandalo per lo scandalo. Io ho rispetto del pubblico. Ma dei fischi me ne fotto».
Fare teatro, però, vuol dire anche comunicare. E se il pubblico non capisce le sue provocazioni...
«E che c'entra la provocazione coi miei spettacoli? Provocatorio era Carmelo Bene, quando faceva pipì sugli spettatori. Il mio teatro offre emozioni: parte da un dolore, da una sofferenza. E a quelle ritorna».
Ma se queste emozioni non vengono capite?
«Non m'interessa che il pubblico capisca. Il mio teatro non deve essere capito. Ma attraversato. Non voglio toccare la logica o il ragionamento. Ma la pelle, le viscere. Comunicare emotivamente. Per questo non racconto mai trame precise. Se il mio problema fosse farmi capire, io che faccio prevalentemente spettacoli in dialetto siciliano, superato lo stretto di Messina sarei fregata».
E invece il prossimo gennaio farà la regia del Macbeth verdiano al Massimo di Palermo, e a febbraio tornerà al Piccolo di Milano per la novità Bestie di scena. Nonostante molti l'accusino d'essere solo una narcisista.
«Fa
parte del gioco. La verità è che molti classici ormai sono morti. Vengono messi in scena da morti per un pubblico di morti. Mentre invece, io, cerco di farli rivivere. A qualcuno piaccio, a qualcuno no. Ma chi se ne frega».
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