Orinatoi, «odio» e splatter Ma cosa è rimasto dell'arte contemporanea?

Il 1917 è l'anno della «Fontana» di Duchamp, il '67 dell'Arte Povera e il '97 della mostra «Sensation»

Luca Beatrice

Cento anni fa, nel 1917, Marcel Duchamp produsse il suo ready made più celebre. Prelevò un orinatoio, uguale a quelli che si trovano nei bagni pubblici, gli diede il nome di Fountain (Fontana) e lo firmò con il nome misterioso «R. Mutt». L'artista francese, abituato da tempo a fare la spola tra Parigi e New York, non poté però presentarlo alla Society of Independent Artist, perché i suoi membri si divisero aspramente sulla legittimità del gesto. In segno di protesta Duchamp si dimise dalla commissione, eppure la sua Fontana rivoluzionò per sempre il mondo dell'arte che da quel momento non è più stato lo stesso.

Da allora infatti si è imposta la cosiddetta teoria del contesto: arte è tutto ciò che entra in una sede che può certificarne l'esistenza in vita, un museo, una galleria, insomma un luogo deputato, indipendente dal materiale e dal linguaggio utilizzati. L'artista del XX secolo, quindi, non è più un talento capace di destreggiarsi tra pittura, scultura, disegno o quant'altro, ma un demiurgo che con il solo gesto può imporre la presenza dell'opera. La questione sollevata da Duchamp rispetto ai confini su cosa sia o non sia arte è ancora argomento di discussione sulla quale i pareri sono discordi. Perduta l'aura, il tutto si è trasformato in un processo mentale, teorico e l'approccio concettuale è rimasto l'unico valido. Con il rischio di una pletora di imitatori che lo stesso Duchamp, ironico e sarcastico, mal avrebbe tollerato.

È passato invece mezzo secolo dall'invenzione dell'Arte Povera, ultimo (o penultimo se includiamo anche la Transavanguardia) momento di spolvero dell'Italia a livello internazionale. Era il 1967. Non il gesto di un singolo, ma un gruppo ben compatto capitanato da un critico, Germano Celant, con le idee molto chiare: avvicinare l'arte ai temi caldi della società del tempo, i cui fermenti stavano per esplodere nella stagione più contraddittoria e problematica del dopoguerra. Il testo-manifesto porta un sottotitolo alquanto evocativo: «Appunti per una guerriglia», e all'inizio è così, anche se le opere di Anselmo, Paolini, Merz, Kounellis e degli altri non sembrano davvero intrise di politico. Certo, la scritta Odio di Gilberto Zorio non porta esattamente un messaggio conciliante, nell'Italia che si affaccia agli anni di piombo; la vera novità sta nell'utilizzo di materiali anomali e, soprattutto, nella costruzione scientifica di un gusto che da cinquant'anni si impone come l'unica faccia dell'arte italiana.

Con una strategia militaresca l'Arte Povera ha conquistato credibilità critica, potenziato il mercato fino a raggiungere prezzi inarrivabili, costruito musei come cattedrali per autocelebrarsi con enfasi. Dopo, soltanto il diluvio.

Pochi giorni fa abbiamo visto Michelangelo Pistoletto in tv da Fabio Fazio: grande artista senza dubbio ma soprattutto guru, magnetico, sempre vestito di nero. Le celebrazioni dell'Arte Povera investono ora il grande pubblico, da cui un tempo i poveristi si sarebbero tenuti lontani, per ideologia e snobismo.

Vent'anni fa, infine, irruppe sulle scene quella mostra, forse l'ultima, capace di mettere un punto di non ritorno all'arte occidentale. Tra settembre e dicembre 1997 la generazione terribile della Young British Art sconvolse il pubblico benpensante con lo show Sensation allestito nel tempio della cultura inglese, la Royal Academy, a Londra. E tutto il mondo ne parlò. Squali e vacche sezionate in formaldeide (Damien Hirst); il calco del padre morto (Ron Mueck); il ritratto della babysitter assassina (Marcus Harvey); il trionfo dello splatter (Chapman Brothers); il letto sfatto circondato da psicofarmaci, alcool e preservativi (Tracey Emin); una madonna nera costellata da organi sessuali e appoggiata su due enormi cacche di elefante (Chris Ofili).

Uno scandalo senza precedenti perché l'operazione era sorretta da un cinico pubblicitario, Charles Saatchi, che aveva comprato i lavori a poco prezzo e li aveva fatti salire a quotazioni folli con una strategia potentissima. Il trionfo di un'estetica violenta, esplicita, urtante, l'unica versione del punk nelle arti visive. Una bomba nello stagno, insomma.

In tema di anniversari, di cui attendiamo ovvie celebrazioni a cominciare dalla grande retrospettiva di Hirst a Venezia tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana in aprile, la domanda è la seguente: quale di questi tre «fatti» ha davvero cambiato l'arte del '900? Il Ready made duchampiano, l'Arte Povera o i perfidi albionici senza scrupoli?

La valutazione non può essere unilaterale. Se il calendario del contemporaneo comincia dall'orinatoio, l'Arte Povera ha però imposto la sua coda lunga, con il consenso del club popolato da snob e la sua visione fastidiosamente elitaria. Però le provocazioni degli inglesi hanno aperto alla necessità di un rapporto tra l'arte e la società dei media, ormai alle soglie del Duemila.

Oggi, nell'era della globalizzazione e della frammentazione, è molto difficile pensare a un artista o a un movimento il cui impatto possa risultare altrettanto rivoluzionario. 1917. 1967. 1997. Tre date incise nella pietra.

Se non accadrà nulla di rilevante, il 2017 verrà ricordato come l'anno della fine dell'arte contemporanea, attorcigliata su se stessa, autoreferenziale, episodica. Noiosa e poco interessante.

Eppure sappiamo che per ogni fine c'è sempre un nuovo inizio.

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