«Ho dato via la mia cosa più importante. E adesso?», chiede alla Contessa Clara la giovane, che ha rinunciato alla sua illibatezza e ne è affranta: per il futuro, non s'intravedono fidanzamento, o fede al dito. Correvano i Cinquanta del Novecento e una donna, sola e non più vergine, non valeva molto sul mercato dell'amore finalizzato al matrimonio. E se oggi ragazze pronte a tutto mettono in vendita l'imene su internet, facendo di necessità virtù, è divertente immergersi in Sogni, sesso e cuori infranti (Piccola Posta parla), film documentario di Gianfranco Giagni (il 20 al Maxxi di Roma, il 25 al Lumière di Bologna, poi in sala e in dvd), che racconta il Belpaese tramite migliaia di lettere scritte dalle italiane ai più importanti settimanali femminili, tra i Cinquanta e i Sessanta. Quando le mamme insegnavano alle figlie la decenza, ripassandole in rivista prima che uscissero di casa. Un tacco troppo alto, o una maglietta aderente venivano cassati in nome d'una riservatezza di altri tempi.
Era il regno indiscusso di Donna Letizia, della Contessa Clara e di Brunella, signore del bon ton, che educavano le italiane alle buone maniere scrivendo su rotocalchi femminili come Amica, Grazia, Annabella, Harper's Bazaar. Le «riviste rosa» dove tali dame che il bel mondo lo conoscevano davvero Donna Letizia, alias Colette Rosselli, era laureata in Lingua e letteratura francese all'Università di Losanna, dov'era nata e frequentava i salotti internazionali più esclusivi: nel 1974 la sposò Indro Montanelli, altro maestro di eleganza - tenevano rubriche fisse, dette «Posta del cuore». Manuali del saper vivere nell'Italia del dopoguerra, dove la gente scriveva e leggeva con la guida del maestro Manzi in tv. Ai consigli su come comportarsi a pranzo si alternavano suggerimenti sulla sessualità, all'epoca tabù. «Non ceda, non ceda» era il grido di battaglia di Donna Letizia, che invitava le signorine operaie o dattilografe, figlie di buona famiglia o impiegate alle poste a rifiutare la «prova d'amore» al maschio richiedente segnali di modernità.
Prima che la borghesia venisse rasa al suolo e mentre la società italiana si modernizzava, i rapporti fra classi e sessi erano messi sotto teca dai consigli di Colette. «La Vera Signora non cammina ancheggiando volutamente. Se qualche vitellone mugge dietro a lei un complimento superlativo, non lascia trasparire un sorriso compiaciuto», stilava il suo galateo. Ma l'amore, la voglia, l'urgenza che nei Sessanta incombevano e presto avrebbero scassato chicchere e piattini, mandando al diavolo la cultura delle buone maniere? Le signore dello stile insistevano col garbo: sulle loro scrivanie arrivano lettere accorate di madri nubili, di mogli sull'orlo d'una crisi di nervi, di riconciliazioni drammatiche e appassionate. E il balsamo sul cuore è necessario. Milioni di italiane dall'apparenza tranquilla, tese a godersi il boom economico e il frigo nuovo, erano assai infelici. Ma la Contessa Clara, all'inizio dei Cinquanta, con Giovanni Guareschi la firma più popolare d'Italia, non conosce il piglio delle femministe. La ragazza bon ton alla sera non salta il bagno caldo e i denti se li lava ogni volta che mangia, visto che «un ottavo dei nostri giornali è dedicato ormai alle favole delle fanciulle e dei giovanotti che non si sposano, non si amano, non si capiscono, perché soffrono di alitosi». Fenomeno editoriale travolgente, la Contessa Clara (al secolo Maria Vittoria Rossi, già Irene Brin sull'Omnibus di Longanesi) si guadagnò gli onori della satira col personaggio radiofonico del Conte Claro impersonato da Alberto Sordi, poi con le parodie di Steno nel film Piccola posta (1955).
La subalternità della donna sognata da Contessa Clara non è ripresa da Brunella, che invita le lettrici di Annabella all'autonomia, parlando di aborto prima di ogni altra. «Si può rimanere incinta con un bacio?» scrive una ragazza nel '65. Tre anni dopo, né Brunella, né Contessa Clara o Donna Letizia sarebbero servite più.
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