Scipione il romano condottiero di parole eroiche

Autore di sole dieci poesie, il pittore fu incluso da Anceschi nei «Lirici nuovi». Appunti, diari e lettere sono lampi di confessioni e preveggenza

Scipione il romano condottiero di parole eroiche

In un autoritratto in pastello rosso, dove la testa galleggia, decapitata, nel vuoto, pare un incrocio tra Alberto Sordi e un Dioniso anarcoide, di certo anacronistico. Anacronistico, démodé, controcorrente Gino Bonichi, nato a Macerata nel 1904, ultimo di sei fratelli, fu fin nel nome d'arte che lo contraddistingue: Scipione.

Nome marziale e romano, certo, classico in assoluto. Nome di guerrieri. E di cardinali. «Mi sembra di uscire dal tempo antico e pronto per la battaglia», scrive l'11 novembre 1928 a Mario Lazzaro. Siamo nel periodo più tumultuoso e ricco della vita artistica di Scipione, insieme a Mario Mafai, ad Antonietta Raphaël e poi a Renato Marino Mazzacurati, tra gli eroi della cosiddetta «Scuola romana», promotrice di «un'arte eccentrica» (Roberto Longhi) in cui «domina una figurazione selvaggia e riduttiva che recupera lontane ascendenze barocche o più vicini furori espressionisti» (Renato Barilli). Scipione, che sentiva affinità fraterna con i manieristi ma soprattutto con El Greco («Per noi il Greco è un visionario. Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi»), aveva chiare idee rivoluzionarie: «daremo la scalata alle torri dove ci sono quel mucchio di fessi d'artisti del c....», scrive ancora a Lazzaro. Autore di corrosive graphic novel in cui sfotteva i pittori del suo tempo (memorabile quella sugli «artisti sindacati» che «si recano all'inaugurazione della Prima Quadriennale d'Arte Nazionale», è il 1931), chiarifica il proprio piano di guerra in una lettera a Mazzacurati. Carlo Carrà? «Gira rigira con la metafisica e fa le vacche con i cagnoletti»; Arturo Tosi? «Ottocento fracico». Ferruccio Ferrazzi? «È schifoso». Felice Casorati? «È merda». Ardengo Soffici? «Per me non esiste». Mario Sironi? «Un espressionista sconclusionato». Morale del massacro: «L'Italia non ha nulla, nemmeno un artista moderno». Il virus della modernità, piuttosto, ci pensa lui, Scipione, a iniettarlo nelle vene retoriche e nell'ugola di marmo dell'arte italica. Il ritratto del Cardinal decano (che sarebbe Vincenzo Vannutelli e che fa il paio con l'impressionante inchiostro che cristallizza Il Cardinale sul letto di morte), del 1930, ad esempio, è di furente vigore perché da un lato ripiglia il Paolo III secondo Tiziano, dall'altro prevede l'Innocenzo X scartavetrato da Francis Bacon.

Scipione, autore di opere ambigue, che lampeggiano di enigmi e di deformità (Uomini che si voltano, Apocalisse), frollate in un benedetto vuoto («ora dovrei parlarti della mia solitudine - scrive a Libero De Libero - anche tu conosci questa bestia: essa inaridisce il cuore, sa scavare, come una talpa, e come essa ha il pelo morbidissimo impalpabile, ed è del suo stesso colore, grigia»), è una specie di angelo spietato dell'arte. Durato l'attimo di un lampo, come una rockstar, come un Jimi Hendrix, come un Ian Curtis, svanisce a 29 anni, nel 1933, in un sanatorio, ad Arco, in Trentino, la terra di un altro grande artista, Giovanni Segantini. Scipione, che pure fu baldo, atletico, dotato nello sport, viene azzannato meno che ventenne dalla tubercolosi. Quel male che infine lo vince. Ma è proprio qui, nel canyon della malattia («Il male è il solo assoluto padrone e fa quello che vuole. È una bestiaccia che si sveglia affamata, poi si satolla della nostra carne, si riaddormenta, a volte cade in letargo, oppure in silenzio, senza che nulla venga turbato in apparenza; continua a distruggere e sempre e ancora c'è da distruggere», scrive il 12 dicembre 1932 a Enrico Falqui), che giace il mistero di Scipione. Tra il 1928 e il 1930 scrive «dieci splendide, anzi esemplari poesie», secondo il giudizio di Amelia Rosselli, che nel 1982 scrive una assai partecipe introduzione alle Carte segrete dell'artista, edite da Einaudi. «La sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v'è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile anche in questi moderni tempi», continua la Rosselli.

Dieci poesie di laminata bellezza, frammenti di visioni celesti incise su pietra («Io sono la voce dell'albero che cade,/ la mia corteccia sarà accarezzata/ quando si vedrà che dentro sono bianco»; «Mise le mani per terra ed era simile/ ad una bestia»), scritte quando la lirica italiana stava fermentando capolavori (Ungaretti sta dettando Sentimento del tempo, Montale ha appena partorito gli Ossi di seppia) e che, lette oggi, fanno barcollare tutto il Colosseo della lirica italiana del Novecento. Detto diversamente, questa sassaiola di versi non ha nulla di meno delle vertigini concettuali di Mario Luzi o dei gherigli verbosi di Andrea Zanzotto o dei grovigli psichici di Vittorio Sereni. Ed è, indubbiamente, ben meglio di tanta pappa lirica che sta tra Cesare Pavese e il tardo Quasimodo. Forse per questo, al di là di Luciano Anceschi, che nel 1943 arruola Scipione tra i Lirici nuovi, insieme a Saba e Quasimodo, Betocchi, Luzi, Montale e Dino Campana, nessuno, salvo sporadiche sortite (l'antologia Maledetti italiani, edita da il Saggiatore nel 2007), ha installato l'artista irregolare tra i grandi poeti del Novecento.

Come è possibile giustificare il genio di un poeta che ha scritto soltanto 10 poesie in tutto? In realtà, che il talento letterario di Scipione fosse superiore se ne accorsero subito in molti. Nel 1935, per Scheiwiller, Falqui raccoglie sotto il titolo Le civette gridano le poesie di Scipione; nel 1943 lo stesso Falqui, per Vallecchi, cura le Carte segrete dell'artista. Alle poesie, cioè, aggiunge secondo la sua inclinazione estetica appunti, pagine di diario, lettere. Ne scaturisce, involontario, una specie di romanzo sbilanciato sulla confessione e sulla preveggenza («Nel mondo ci penserà forse ancora una guerra o forse l'uomo è condannato a scendere ancora più in basso nell'abbandono e nella freddezza fino a congelarsi in uno stampo di cemento armato»), che oggi appare di lancinante modernità. Eccolo qui, il nostro Salinger messo sotto l'aceto della Notte oscura di Giovanni della Croce, in un percorso narrativo che va dalla bestemmia alla mistica, come si legge nelle ultime lettere, «A un Reverendo» misterioso, «Voglio dirLe subito che Scipione è cambiato. E pure stando fermo in Sanatorio ha camminato molto sulla via della Verità. Questa pazienza e questa calma nel cuore. Sono stato mesi interi obbligato a letto, senza noia e senza stancarmi». Dal male oscuro, Scipione munge nettare. Artista dalle letture articolate («era lettore fanatico della Apocalisse, dell'Inno a Caino di Ungaretti nell'originale versione francese, dei Canti dell'Innocenza e dell'Esperienza, scritti profetici di Blake», testimonia Leonardo Sinisgalli), poeta sempre ci ha donato il più bel ritratto di Giuseppe Ungaretti, con il grugno ruvido di un satiro, e per l'Editore Carabba firma nel 1931 una copertina d'autore e da collezione per Ossi di seppia di Montale Scipione ha la grazia degli adepti rari alla schizzinosa Musa poetica. Ovunque è visionario, fino al crepitio dell'ustione: «Quando si scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione»; «Sei stato colpito nell'elemento, dove hanno sede le forze più oscure, dove principia per la creatura umana la notte»; «Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto».

Scipione, del quale il raffinato editore Raffaelli ha intenzione il mese prossimo di riproporre le poesie accorpate a una selezione di opere d'arte, va letto nelle notti tormentate dalla pioggia, quando balza più prepotente la nostra

inquietudine. Morto precocemente, come i prediletti, Scipione, l'artista che con dieci poesie ha squassato la letteratura italiana, va letto come si consulta un oracolo o ci si getta in un Libro d'Ore. Per imparare a vivere.

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