Finalmente è nelle sale Spencer, il film di Pablo Larrain incentrato sulla figura di Lady Diana e presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia.
Lontano dal biopic comunemente inteso, il film segue la principessa provando a immaginare cosa sia accaduto durante l’ultimo Natale trascorso con Carlo e la famiglia reale.
Tre giorni qualsiasi nella vita di una persona possono dire molto e Larrain lo sa. Sceglie quelli vissuti presso la tenuta di Sandringham, dove la regina attende i suoi ospiti per officiare una festività che per Diana (Kristen Stewart) sarà un tour de force. La principessa nei dieci anni a corte ha smarrito se stessa e, benché sia diventata madre di due bambini adorati, è infelicissima. Braccata come un animale essendo la donna più fotografata al mondo, nel privato ha visto il sogno del matrimonio infrangersi presto. La misura è colma da tempo e il fatto che Carlo, in questa circostanza, abbia regalato a lei e all’amante la stessa collana di perle è solo la goccia che fa traboccare il vaso. Provata da una schiavitù anche interiore, quella della bulimia, la giovane donna si appresta a recitare l’odiato ruolo nel momento in cui è meno in grado di farlo. Quel che più può nuocere alla sua già conclamata fragilità psichica è infatti l’obbligo di splendere, fingere armonia e nutrirsi in pubblico. Quando non è in scena, Diana ha momenti di solitudine totale in cui la suggestione della mente ha il sopravvento: avrà solo il fantasma di Anna Bolena a tenerle compagnia. Il peso della tradizione si esprime nel giogo di una routine disumanizzante al punto da rendere, in Diana, allucinatorio il proprio stato. Per reazione e vendetta l’ex signorina Spencer ha finito col diventare ciò che più spaventa la Corte: una variabile impazzita. Ma ne fa le spese in prima persona. Le è impedito di essere se stessa e lei allora prende l'obbligo in parola e va fino in fondo al baratro: il disturbo alimentare è infatti prima di tutto uno spossessamento di sé. Va nella direzione opposta a quella di perfezione e autocontrollo che le viene richiesta.
Indossare abiti splendidi ma scelti da altri, portare al collo un gioiello che è l’emblema della disattenzione affettiva del marito, pasteggiare sotto gli occhi di tutti pur avendo un problema col cibo, sono cose che amplificano il suo senso di inadeguatezza e di vuoto. L'unico suo unico appiglio resta l’essere madre, ruolo in cui ritrova slancio esistenziale.
Da fuori è facile pensare che Diana Spencer si trovi in cima al mondo, eletta tra le elette, ma standole vicini come Larrain permette di fare, si scopre quanto appunto, nel rigetto della corona, sia ancorata a quel suo cognome da nubile che dà il titolo al film. Sono i ricordi di lei bambina e il suo vero sé ancora non domo a tenerla ancorata in vita. La sofferenza è infatti tutta legata a quel che non può più essere, una semplice Spencer. Voler essere “normale”, nel senso di figlia del proprio tempo, è blasfemia nella cattedrale dell’immobilismo, in cui viene eternizzato il passato a colpi di cerimoniale.
E poi c’è il gelo di quei sontuosi corridoi, dove tutto è apparenza: nelle foto di rito del resto non ci sarà traccia del termostato. Fuori dall’obiettivo ci si ripara con più coperte anziché accendendo il riscaldamento, il che è emblematico del fatto che nella famiglia reale la freddezza venga ritenuta temprante e che l’emissione di calore non sia un’opzione.
Diana solidarizza con i fagiani che, come lei, sono creature allevate per diventare splendide prede. Ecco perché la scena di caccia in cui i suoi piccoli William e Harry dovrebbero essere educati a uccidere la bellezza e la libertà, diventa tanto importante. La madre rischia tutto per interrompere quel tradizionale apprendistato da carnefici. Lei, vittima designata e già colpita, riesce a fare la guastafeste e a portare via i principini.
Il film di Larrein mostra bene come il vertice di quel che viene chiamato successo sia scomodo da abitare e, lontano com’è dalla base dei bisogni primari, annebbi spesso la vista su cosa conti davvero. La dolcezza dell’esistenza non è in privilegi raccontati come tali, ecco perché il finale mette in scena come possano bastare un hamburger e una canzone cantata in auto in compagnia per sentirsi i re del mondo.
“Spencer” è elegante nella dimensione visiva così come in quella onirica e simbolica.
Negli ampi spazi recintati in cui è ambientato, il regale sfuma nel reale, la storia intima in quella universale, l’allegoria nella cronaca dei fatti e, soprattutto, l’incubo in processo di consapevolezza e liberazione.
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