In effetti, è molto semplice. Se non hai consumato il dito sulle carte dei grandi esploratori, spaccandoti l'unghia in un'isola ignota, con la lussuria di scoprire il dito mignolo accerchiato dai leoni, in tenebre africane, beh, non sai cos'è la letteratura. Prima di sfidare James Joyce a duello, sono cresciuto con un libro che mi sembrava più grande di un continente. Stampa Mondadori, lo hanno scritto Piero Ventura e Gian Paolo Ceserani, s'intitola Le grandi esplorazioni. Ce l'ho ancora, sporco di decenni.
La cosa più bella non erano le illustrazioni bellissime, per altro ma le mappe. Passavo i giorni passando il dito sui percorsi compilati da Marco Polo, da Cristoforo Colombo, da David Livingstone, da Amundsen e da Robert Falcon Scott. Facevo lo stesso con una carta che segnava, come una frase tatuata sul dorso del Mediterraneo, i vagabondaggi di Ulisse, tra Lestrigoni, Lotofagi, Ciclopi e femmine così belle che ti s'inceneriscono le labbra solo a pronunciarne il nome. Quando uno zio con il tic per la bibliomania mi regalò un'edizione dell'Ottocento dei diari di James Cook, capii due cose.
Primo: che i grandi esploratori non sono dei grandi narratori. Secondo: che gli scrittori sono degli esploratori mancati. Insomma, la letteratura nasce raccontando un viaggio. Terreno (Ulisse), extraterreno (Dante), esistenziale (Joseph Conrad), mentale (il Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre), ultrasensoriale (Il vagabondo delle stelle di Jack London), galattico (Ray Bradbury).
Eppure, Magellano (Castelvecchi, pagg. 238, euro 17,50), il romanzo ipnotico di Gianluca Barbera, creatura stramba nel contesto narrativo nazionale, pare rivoluzionario. Perché? Perché siamo passati dal viaggio totale e totemico al cielo in una stanza alla circumnavigazione dell'ombelico, producendo romanzi farciti di sociologia, imbarbariti dallo psicologismo, stantii. Pallosi, più che altro.
Spudoratamente, invece, Barbera vuole scrivere solo un romanzo di avventure, fingendosi, voluttuosa menzogna, l'avatar di Salgari, perché «tutti guardano a modelli alti, ma il romanzo è innanzitutto una forma d'arte popolare». Palle. Magellano, infatti, che ripercorre le avventure del super navigatore portoghese, ha una struttura narrativa strategicamente impeccabile. La vicenda già narrata, nella realtà dei fatti, da Antonio Pigafetta è detta da «Juan Sebastián del Cano detto el Perro, il Cane... nocchiero sulla Trinidad, al fianco di Ferdinando Magellano», quasi cinquant'anni dopo gli eventi Magellano muore nel 1521, el Perro sigilla «l'appassionata relazione» in data 12 settembre 1568 con lo scopo «di ristabilire la verità, tutta la verità, su quella memorabile spedizione, concepita, progettata e condotta, fino a che le forze non lo hanno abbandonato, da Ferdinando Magellano, unico a meritare il titolo di circumnavigatore del globo e scopritore di nuovi mondi a oriente».
Uno sbuffo in corsivo, alla fine del libro, ci avvisa che tale «relazione» è stata «da noi tradotta dal castigliano al volgare italiano come meglio abbiamo potuto, stante anche lo stato corrotto del manoscritto e l'ardua grafia». Chi sarà mai il bilioso traduttore? Chi lo sa. La somma di una duplice distanza il tempo, la lingua conferisce alla storia lo statuto di leggenda. E qui casca la bugia di Barbera.
Altro che Salgari e la narrativa popolare. Il libro seduce, certo. Merito del personaggio («Quella di Magellano è una tragedia che sembra uscita dalla penna di Shakespeare», ci dice l'autore), tratteggiato, è vero, con l'uncino del genere (ecco l'ingresso in scena dell'eroico: «Era un piccoletto, come dicevo, ma con spalle più larghe del dovuto, anche se rincagnate, e poi mani grosse e tozze, occhi neri e incavati sotto sopracciglia cespugliose, un'ispida barbetta allungata sul petto che cominciava a farsi brizzolata e labbra sporgenti atteggiate a perenne disgusto») e con vertigini derivate da Conrad («La vicenda umana di Magellano era qualcosa di tortuoso e sprofondato nelle cavità del mistero. E se credete che esageri significa che non avete ancora capito nulla»). Ma in sostanza questo è un romanzo sperimentale.
Proprio così. Barbera shakera tutti i nobilissimi precedenti (dal Magellano di Stefan Zweig al Regno proibito dell'olandese Jan Jacob Slauerhoff, dal ciclo «Ai confini della terra» di William Golding ai romanzi di Christoph Ransmayr a quelli di Vittorio Giovanni Rossi, che andrebbero degnamente ristampati) e s'inventa una lingua nuova, un italiano posticcio e pasticciato, livido e marinaro, eloquente e bastardo, nel senza tempo dell'avventura.
Così, durante il viaggio che è sempre un periplo intorno al globo della mente umana tra torture e tradimenti, vaghiamo per antropologie grottesche («un capovillaggio» dal nome parlante, Belin, illustra i metodi che le selvagge del Brasile attuano «per soddisfare le loro voglie»: «davano nascostamente da bere agli uomini il succo di una certa erba capace di produrre erezioni di proporzioni anomale. E, se questo non bastava, mentre gli uomini giacevano addormentati accostavano taluni animali velenosi al membro maschile affinché il loro morso lo gonfiasse a dismisura»), splatter fumettistico («Appesi a una trave c'erano i resti del povero Armigi, fatto a pezzi e messo a salare. La testa giaceva dentro un canestro, le orbite vuote e una banana infilata in bocca»), visioni prometeiche («ci trovammo davanti il mare aperto, sulla cui superficie grossi uccelli scendevano in planata a caccia di pesce. Il grande oceano ignotum, mai solcato prima da nave europea»).
A dare una potenza austera a questo romanzo che pare scritto da un Erodoto nell'era dei Pirati dei Caraibi, le frasi sapienziali, miliari, moltissime, disseminate nel testo («Conosci il tuo abisso e saprai ogni cosa», «Una mente libera rifiuta ogni legame con leggi che non siano quelle che essa stessa si impone, dal momento che ogni autorità costituita non è che usurpazione»; «Il presente è solito trattare il passato con la stessa negligenza con cui il futuro tratta il presente»).
Pare che l'autore di questo romanzo, splendidamente inattuale, ci abbia preso gusto. Prossimamente s'inventerà un linguaggio per narrare la storia di Jesse James, di Casanova, di Marco Polo.
Quanto a me, io estraggo una delle sentenze di Juan Sebastián del Cano personaggio tra i più simpatici della narrativa attuale «è la vita a distruggere la vita», e me la appunto sul braccio sinistro. Quasi quasi, mollo la penna, getto il computer dalla finestra e parto a cartografare l'ignoto, blaterando epopee.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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