Ta-Nehisi Coates, che noia la retorica sul razzismo... meglio «Django»

Massimiliano Parente

Che cos'è il multiculturalismo? Una forma di razzismo ideologico al contrario: si privilegia la tematica sociale, il paese d'origine o l'etnia di un autore, rispetto alla qualità letteraria di un romanzo. Harold Bloom, il più importante critico americano, ne sa qualcosa: al posto del canone occidentale, vige un canone terzomondista. In piccolo succede nelle stesse nazioni: da noi il multiculturalismo è il regionalismo piagnone di romanzi napoletani, pugliesi, siciliani, lagioiani e savianiani.

È la ragione per cui a affermare che un romanzo come La capanna dello Zio Tom faccia schifo sembra di essere degli schiavisti, mentre, di contro, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain è sia un capolavoro della letteratura che un romanzo antischiavista, dove Jim, l'amico schiavo di Huck, è un negro, come è pieno di negri il capolavoro di William Faulkner, Assalonne, Assalonne!, e almeno lui, per sbaglio, prese il Nobel.

È la ragione per cui non si dà il Nobel a Philip Roth, il quale, tra l'altro, ha scritto uno dei più grandi romanzi antirazzisti, La macchia umana, mentre si premiano autori minori più impegnati e dichiaratamente comunisti, e un Nobel è toccato perfino a Dario Fo senza che abbia mai scritto un romanzo (anzi uno sì, bruttissimo, ma dopo il Nobel).

È anche la ragione del perché il romanzo di Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo (esce in Italia da Codice Edizioni) ha vinto il National Book Award, il Pen Literary Award, ha ricevuto il plauso della feroce Michiko Kakutami («Appassionato, autorevole, commovente»), di Le monde («Un libro epocale»), perfino di Jay-Z, in forma di preghiera («Vi prego, leggetelo»), e chi più ne ha più ne metta.

Si tratta di una lettera che lo stesso autore scrive al figlio quindicenne (inizia proprio così: «Figlio mio») e dopo dieci minuti di lettura induce al sonno più del Tavor. È una lunga tirata morale sul razzismo, sull'infanzia del mittente (nessun padre, bianco o nero, è sopportabile quando racconta la sua infanzia), come se fossimo ancora nell'Ottocento.

Tema dominante: il corpo (nero) dalla prima all'ultima pagina. Coates va in televisione e la presentatrice «affronta il tema del mio corpo», e sul corpo gli americani «hanno tradito il loro dio», e del corpo la razza è «figlia del razzismo, non la madre», e gli americani riguardo al corpo «credono alla verità della razza che appartiene al mondo naturale» (però un nero è diventato Presidente degli Stati Uniti, no?). E poi ancora le tribolazioni «per sopravvivere alla strada e proteggere il mio corpo...», «potevano spaccarti la faccia esaltati dalla violenza dei loro corpi...», «...eccomi lì, con l'incarico e la responsabilità, come tutti gli altri, di proteggere il mio corpo», e un elenco di aneddoti e atti tesi «a negare a te a me il diritto di proteggere e controllare il nostro corpo», ricordando come «la sociologia, la storia, l'economia, i grafici, le carte, l'analisi delle regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo».

In fondo la verità è che non esiste più il razzismo, esiste il classismo. Se al posto dell'adolescenza per strada di Coates mettete un adolescente camorrista del Quartiere Sanità di Napoli, non cambia niente.

Morale della favola: Coates mette a dura prova la pazienza del lettore, arrivi a metà libro e pensi che palle questo negro, e si prova solidarietà per il povero figlio costretto a sciropparsi l'infinita predica.

Per reazione gli verrà voglia di sbiancarsi come Michael Jackson. Insomma, per stare dalla parte degli afroamericani, senza se e senza ma, ha fatto molto più Quentin Tarantino con un solo film: alzi la mano chi non sta con Django.

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