Nel XIX secolo Stendhal sosteneva che le città più noiose e grigie d'Europa fossero Lione e Torino. Probabilmente avrebbe mantenuto tale opinione almeno fino a una ventina di anni fa, quando, complice la crisi industriale degli anni Novanta, il capoluogo piemontese fu costretto a reinventarsi, scoprendo una vocazione fino ad allora sconosciuta: il turismo e la cultura.
Torino, in effetti, negli anni '70 era una Company Town chiusa e inospitale, dove le persone venivano solo per due motivi: lavorare in Fiat, andare allo stadio per le partite della Juventus. Il ritmo del traffico era cadenzato su quello della fabbrica, la sera scattava una sorta di coprifuoco ed era difficile trovare un ristorante aperto. In tale contesto si è sviluppata una cerchia di potere molto ristretto e familistico, impenetrabile dall'esterno. Nei pochi salotti torinesi si chiedeva agli ospiti occasionali non "chi sei" ma "da dove vieni", poiché il blasone, più del denaro, è sempre contato molto, fin da quando Torino era Capitale.
Ciò nonostante la mia città, struggente sulle rive del Po, austera nell'urbanistica settecentesca progettata da Juvarra, misteriosa per il Liberty e il modernismo che tanto piacque a Dario Argento, ha da sempre sviluppato una vocazione sperimentale. Dal basso e senza una precisa indicazione strategica, fin dal primo Novecento, Torino è stata la culla della moda e del cinema, e la sede delle Esposizioni Universali. Negli anni Sessanta il fiore all'occhiello era rappresentato dal Salone dell'Automobile, col tempo ridimensionato fino alla sparizione. Gran parte degli artisti dell'Arte Povera sono nati qui e qui hanno operato, tanto che alle porte della città è sorto a metà anni Ottanta il primo museo del contemporaneo, il Castello di Rivoli, oggi inutile e costosa cattedrale nel deserto.
Poi la svolta degli anni Novanta di cui si diceva e l'onda lunga arrivata fino alle Olimpiadi del 2006. Nonostante la crisi Torino, tra i capoluoghi più indebitati d'Italia, ha visto accrescere la propria buona reputazione, anche se sono in molti giustamente a pensare che le tante, troppe, magagne siano state abilmente nascoste sotto il tappeto. Diffidenti per natura, i torinesi hanno sempre lamentato una forte competizione con Milano, ben più lontana dei 140 km di autostrada disastrata e dell'oretta scarsa di alta velocità. Si dice che i piemontesi abbiamo le idee e poi i lombardi le realizzino, parere schematico ma non così astruso. A Milano è facile trovare investitori, Torino fatica molto nel rapporto con i privati, anche perché i soggetti coinvolti sono sempre gli stessi. Un esempio? MiTo, il festival musicale di settembre nato a Torino, è cresciuto esponenzialmente a Milano tanto che qualcuno ha parlato di scippo.
Il caso eclatante di questi giorni, ovvero la probabile fine dell'esperienza del Salone del Libro alla vigilia del trentennale, che buona parte degli editori vuole a Milano, riporta a galla il sentimento di una rivalità mai sopita. E giunge nella stessa settimana in cui Exor annuncia di voler trasferire la testa economica in Olanda, fuga residua di ciò che resta della famiglia Agnelli.
Sembra davvero che sul mondo editoriale vi sia una maledizione: l'ex p
atron del Grinzane Cavour raggiunto dalla condanna definitiva, i vertici di via Santa Teresa, sede della Fondazione per il libro, indagati o addirittura fermati. Se la cultura doveva essere il territorio della trasparenza e del buon governo, troppo spesso in suo nome sono stati consumati atti (forse) illeciti. Più che di scelte costose si può parlare di non scelte conservative, dove le facce non sono mai cambiate fino all'implosione prevedibile del "granitico" Sistema Torino. Che ora deve fare i conti con una necessaria rivoluzione, anche perché la concorrenza è tosta e il rischio di sparire dai radar molto elevato. Un rivolgimento che non ha a che fare con la vittoria del Movimento 5 Stelle, poiché il giovane sindaco Chiara Appendino sta cercando in ogni modo di accreditarsi nel salotto buono consapevole che senza l'élite Torino non la governi. Ha invece molto a che fare con la sconfitta di Fassino, improvvido nel non lasciare dietro di sé una classe dirigente, e della dissoluzione del centrodestra per la seconda volta consecutiva presentatosi diviso alle urne.La confusione è grande sotto la Mole. Il danno vero non è tanto la dipartita di un marchio un tempo glorioso, ma tutto ciò che ne deriva a livello di mancanza di indotto: posti di lavoro, hotel, ristoranti, taxi, servizi ecc...
Ma nessuno della politica ha sollevato questo allarme, perché la preoccupazione ultima è ancora quella di non fare la figura dei vassalli di Milano. Le partite oggi si perdono per mancanza di visione strategica e per Torino non sarà facile trovarne in breve un'altra.
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