Gli Usa mostrano i muscoli Australia fedele a se stessa

L'energia di Mark Bradford e la forte anima aborigena di Tracey Moffatt sono il meglio fra le proposte nazionali

Gli Usa mostrano i muscoli Australia fedele a se stessa

da Venezia

Il terzo giorno di Biennale è sempre il più faticoso. Assorbita l'adrenalina della nuova mostra, il rituale si trasferisce sulla visita ai padiglioni nazionali che, da quando il curatore è diventato davvero il centro della kermesse (fu proprio un'idea di Baratta, cominciata nel 1999 con Harald Szeeman) appaiono persino dei corpi estranei rispetto al progetto scientifico. Ogni Paese, insomma, fa ciò che vuole, si sceglie i rappresentanti e i commissari che a loro volta invitano gli artisti. Ne risulta un panorama niente affatto compatto, contraddittorio, impossibile da decifrare, da dove non emerge alcuna tendenza particolare. Qualche anno va meglio, altre volte un po' peggio, nel 2017 siamo nella media, sulla sufficienza.

Visitarli tutti è pressoché impossibile, soprattutto quelli dispersi nei palazzi tra Canal Grande e Giudecca. Anche ai Giardini resta un'impresa, perché il mercoledì sbarca in Laguna il popolo degli addetti ai lavori - un numero impressionante, da tutto il mondo, ma davvero siamo così in tanti considerando poi che quelli che contano, gli snob veri, non si fanno vedere? - e a questo punto anche il cronista finisce in coda, con un tempo di attesa che talvolta sfiora la mezz'ora a Padiglione. Più che alla Biennale sembra di stare a Euro Disney, si diventa nervosi e insofferenti; ancor più frustrante la ricerca di un punto di ristoro. Ai Giardini si mangia malissimo, i panini sono cari, freddi e stopposi, scarseggiano le sedie. Tanto vale sbrigarsi e mettersi alla ricerca, piuttosto vana, di un ristorante decente in zona.

L'avvento degli smartphone ha decisamente attenuato la differenza tra il viaggiatore d'arte colto e raffinato e la gran massa di turisti. Oggi tutti fotografano di tutto: installazioni, fidanzate, si fanno i selfie e, inchiodati davanti alle opere, postano le immagini sui social rendendo così le code ancor più lente. Senza contare la pessima abitudine di bloccare il flusso fino all'inaugurazione ufficiale del relativo Padiglione, aspettando il ministro o chi per lui. Così è capitato ieri per l'installazione di Anne Imhof (Germania), chiusa fino alle 12,30. Dopo una fila chilometrica, ho rinunciato, nonostante se ne dica un gran bene. Per i lettori del Giornale ne ha riferito comunque Luigi Mascheroni.

Ho visto invece trionfare la pittura di Mark Bradford nel Padiglione degli Usa, con opere muscolari un po' anni '80 e di gran qualità. Bradford ha 56 anni ma ne dimostra almeno dieci di meno: altissimo, fisico che qualunque maschio bianco gli invidia, faccia simpatica, era lì a spiegare i suoi lavori con semplicità non sottraendosi al rito della foto ricordo. Non mi hanno entusiasmato invece quelle presenze che di solito sono una garanzia: la Gran Bretagna seleziona l'installazione di Phyllida Barlow, tra architettura e organico, Israele presenta Gal Weinstein e ancora una volta siamo all'arte politica. Curioso il progetto di Xavier Veilhan di trasformare il suo Padiglione in uno spazio per musicisti, anche se sembra arredato da Ikea; apprezzabile lo sforzo nazionale dei francesi di fare bella figura.

Ci si diverte con l'Austria grazie a Erwin Wurm, che è artista ironico, caustico e dissacrante. Wurm dovrebbe chiedere le royalties a diversi colleghi, Tino Sehgal in particolare. Eppure questa volta il suo camion piantato in terra come un gigantesco albero ricorda gli interventi simili di due italiani degli anni '90, Paola Pivi e vedovamazzei. Simpatico ma senza memoria.

Davanti al Padiglione dell'Australia ho incontrato Tracey Moffatt, vestita di nero, il cui sguardo intenso e la pelle bronzea tradiscono l'origine aborigena. La considero una delle artiste donne più brave degli ultimi decenni, capace di spaziare tra fotografia, video, cinema e narrazione. La sua mostra personale è tra le cose migliori viste fin qui perché davvero coerente rispetto alla storia del Paese che rappresenta.

L'esatto contrario accade altrove, dove sono stati scelti artisti deterritorializzati, quasi che l'arte fosse un solo unico mondo.

Le americane Carol Bove per la Svizzera e Sharon Lockhart per la Polonia, Adelita Husni-Bey nata a Milano, di origini libiche ormai ma stabile a New York. E a proposito di Italia, alcuni rumors parlano del Padiglione di Cecilia Alemani tra i possibili candidati al Leone d'Oro.

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