«Mi piace considerarmi uno scrittore dialettico», ha detto in una recente intervista al manifesto. E in effetti di dialettica, nel suo primo romanzo, ce n'è a tonnellate. A partire da quella fra comunismo e americanismo, per proseguire con quella fra Ho Chi Minh e Ngo Dinh Diem, tra imperialismo francese e imperialismo statunitense, tra professore e studente, tra il caldo secco di Los Angeles e il caldo umido di Saigon e molte altre ancora. Ma quel che conta è che, in Il simpatizzante, lui, cioè Viet Thanh Nguyen, incrociando miriadi di tesi e antitesi, giunge a una sola sintesi: «Noi sopravviveremo!». Sono le ultime parole del libro, e non è detto che siano un messaggio ottimistico, nonostante l'autore, nato a Buôn Ma Thuot, Vietnam del Sud (come il protagonista) nel 1971, sia dall'età di quattro anni cittadino degli Stati Uniti d'America, patria dell'ottimismo.
Infatti Il simpatizzante del titolo (Neri Pozza, pagg. 511, euro 18, traduzione di Luca Briasco, premio Pulitzer di quest'anno e miglior romanzo del 2015 per The New York Times), anch'egli molto... dialettico, simpatizza per tutte le coppie di tesi e antitesi che gli capitano a tiro. Tecnicamente, dal punto di vista letterario, è una spia, un agente segreto («sono un grandissimo amante della letteratura di genere», afferma Nguyen). E non a caso la sua è una fluviale confessione. «Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce», è l'esordio che mette il lettore sul chi vive. Se confessa - pensiamo - significa che è un vinto. Ma d'altra parte, se ha due facce, quale delle due facce ha perso?. L'anonimo narratore riesce, per mano del suo creatore, a raccontare la guerra del Vietnam dedicando alla guerra (o alla guerriglia) al massimo una ventina di pagine su cinquecento. Perché anche il Tempo è stato capovolto dalla macchina dialettica di Nguyen, che ci presenta il dopo prima del prima e del durante.
Si parte dalla caduta (o liberazione? anche i sostantivi sono dialettici, nel grande libro della Storia) di Saigon, nell'aprile del 1974. Tra i fuggitivi che sotto il fuoco nemico-amico s'imbarcano su un aereo diretto a Guam per proseguire poi alla volta degli Usa, ci sono «il simpatizzante», aiutante di campo e giovane ufficiale dei servizi di intelligence; il suo capo, cioè «il Generale», ex numero uno della polizia, con moglie e figli; Bon, suo amico e fratello di sangue, fervente anticomunista che sotto la pioggia di proiettili perde la consorte e il figlioletto. Per il Nostro «simpatizzante» è un ritorno nel Paese dove da ragazzo si è formato la sua «seconda faccia», quella di fiancheggiatore dei Vietcong. Là era stato spedito da Man, altro fratello di sangue, per studiare il nemico da vicino. Evidentemente il sangue, buono o cattivo, sa anche... mentire. Madre vietnamita e padre non soltanto francese, ma addirittura prete, il Nostro ha fatto ben presto il callo a essere considerato un «bastardo», e ora agisce di conseguenza. Con estrema cautela. Prima a Camp Pendleton, nei pressi di San Diego, poi a Los Angeles, sta alle costole del Generale, ostentando una fedeltà che a pensar male suonerebbe sospetta. Però il Generale pensa sempre bene, di quella specie di figlioccio, orfano e integerrimo (almeno fino a quando scopre che ha una relazione con sua figlia). Sospetta invece di un «maggiore crapulone». E quando qualcuno lo elimina, si tranquillizza.
Nelle parti statunitensi della narrazione, dove spiccano Claude, uomo della Cia, il professor Hammer, vecchio protettore del protagonista, la matura giapponese Sofia Mori, della quale il Nostro arriva quasi a innamorarsi, prima che Sonny, giornalista e pacifista di origini vietnamite, gliela sfili abilmente (e mal gliene incoglie), il simpatizzante prosegue imperterrito nel doppio gioco, inviando lettere scritte con inchiostro simpatico a una fittizia «zia di Parigi» dietro la quale si nasconde ovviamente Man. Sul comodino e nel cuore tiene Il comunismo in Asia e la mentalità orientale, la sua Bibbia, «il libro più importante della mia vita».
Poi, ecco la trasferta decisiva, per le sorti del Nostro e del romanzo. Si parte per le Filippine, dove «il Grande Autore» si appresta a girare un kolossal sulla guerra del Vietnam e necessita del suo aiuto per rendere il più realistica possibile la sceneggiatura. Nell'opera di Nguyen, che regge ottimamente gli scarti temporali e geografici, sono queste le pagine meglio riuscite, dove le due finzioni, quella antropologica del simpatizzante e quella del film, s'intrecciano amplificandosi a vicenda, raggiungendo il culmine quando il protagonista, nel finto cimitero dove egli ha voluto collocare la finta tomba della madre, subisce le conseguenze di una finta, ma non indolore, esplosione. Incidente fortuito? Chissà.
Rimesso rapidamente in sesto, è per lui tempo di tornare nella sua seconda patria. Penultima tappa, ultimo rimbalzo di questo ping pong fra Occidente e Oriente. Perché il Generale lo reinvia sul campo per destinazione, con Bon al seguito. Obiettivo, rientrare in Vietnam attraverso Thailandia e Laos. Presa visione, trattenendo a stento conati di vomito, della pellicola del «Grande Autore» (come non pensare ad Apocalypse Now?) i due eseguono. Siamo alle battute finali della confessione. Ma qui il recensore deve fare un passo indietro, lasciando in sospeso l'esito dell'affollata recita collettiva.
Che diventerà un confronto a tre e infine a due. Fra un uomo con due facce e un altro senza faccia, scempiata dal napalm. Infine il simpatizzante simpatizza soltanto per se stesso. Gli basterà per salvarsi? E soprattutto, lo vuole davvero?
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